«Nulla verrebbe mai tentato, se prima si dovessero superare tutte le obiezioni» osservava Samuel Johnson. Tuttavia quando il welfare diventa una trappola, invece che una via di fuga, allora vuol dire che è tempo di metterci mano. Lo ha annunciato Obama parlando di Philantropic big bang e lo ha ripreso con forza David Cameron, annunciando una riforma del welfare che parte dalla Big Society. In Italia, questo sommovimento è sorretto dalla sussidiarietà, che affonda le proprie radici nella tradizione plurisecolare che fa del nostro paese un unicum a livello internazionale.
Quel welfare ideato dall’economista liberale William Beveridge non funziona granché. Costa troppo e non aiuta chi dovrebbe aiutare. Non si tratta di smantellare il sistema universalistico che ci contraddistingue, ma di prendere atto che un sistema incentrato sul drenaggio di risorse pubbliche disincentiva le opportunità e iberna i bisognosi in uno stato di dipendenza. È significativo il caso della “casalinga di Pavia”, che dopo una vincita milionaria al quiz televisivo condotto da Gerry Scotti, in una lettera al Corriere della Sera scriveva: «Preferisco dire che sono casalinga solo perché suona meglio che disoccupata, ma la casalinghitudine non fa per me. Sento che potrei dare qualcosa a questa società. Ma, fino ad oggi, non ne ho avuto l’occasione. O non me l’hanno data».
La questione è se il welfare debba essere giudicato in base al numero di persone che ci finiscono dentro o dal numero di quelli che riescono a uscirne. Inutile dire che la risposta corretta non può che essere la seconda. Sembrano maturi i tempi per considerare l’utilità dei servizi al lavoro, non più regolati da sistemi autoritativi o monopolistici, in funzione dei benefici che essi sono in grado di garantire ai cittadini e al sistema delle imprese. Il venir meno di posizioni monopolistiche quanto l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, ha stimolato lo sviluppo di partnership e l’attivazione di reti con soggetti che svolgono attività su mercati “contigui” (formazione, orientamento, consulenza alle imprese, ricerca e selezione del personale, ecc.), sfruttando fonti potenziali di economie di scala e garantendo un servizio più efficace all’utenza complessivamente considerata.
Nel 2003, con il pacchetto costituito dalla l. n. 30/2003 e dal d.lgs. n. 276/2003, l’evoluzione normativa riguardante il mercato del lavoro trova il suo compimentoCon la riforma ideata dal giuslavorista Marco Biagi non si altera l’impianto organizzativo dei servizi per l’impiego pubblico, ma vengono finalmente poste le condizioni per creare un mercato aperto ai privati. Il “quasi mercato” dei servizi al lavoro trova poi in talune legislazioni regionali un’ulteriore ragione di apertura laddove vengono funzionalmente equiparati i centri per l’impiego e le agenzie per il lavoro private, con la sola eccezione dell’accertamento dello stato di disoccupazione che resta appannaggio esclusivo dei centri per l’impiego pubblici.
Coerentemente con quanto è osservabile nelle realtà europee interessate già da tempo dal processo di apertura del mercato dell’intermediazione, anche nel nostro Paese è auspicabile che il rapporto tra pubblico e privato si vada configurando in termini più che concorrenziali di complementarietà delle rispettive funzioni e azioni. Tuttavia il nostro sistema, incentrato sull’autorizzazione e sull’accreditamento, non è ancora maturo per assicurare il coordinamento generale tra tutti i soggetti che operano nel mercato. E, invero, ancor oggi a livello territoriale si assiste a una sostanziale dialettica tra soggetti pubblici e privati e il loro rapporto tende ancora a delinearsi in termini concorrenziali.
La vera partita non si gioca sulla reciproca erosione di funzioni e compiti, piuttosto in una vera partnership in cui si individuano le aree di collaborazione, le sinergie e i principi per coniugare responsabilità ed esigenze di mercato. Occorre, pertanto, riconsiderare il ruolo e i compiti di ciascun attore: le Agenzie per il lavoro private da un lato, quali Centri servizi integrati e partner strategico per la competitività delle imprese; i soggetti pubblici, dall’altro, quali titolari dei dati conoscitivi e di talune funzioni essenziali in una prospettiva di miglioramento continuo dei servizi al lavoro. Maggior coinvolgimento della società e dei privati non significa arretramento del pubblico, ma miglior definizione di limiti e ruoli: oggi non si può più avere la pretesa assolutista di costruire dall’alto il presunto benessere generale, ma si può e si deve favorire la nascita dal basso di un welfare plurale, espressione di una funzione sociale diffusa, fondato sulla corresponsabilità di tutti.
(Alessandro Venturi, Università degli studi di Pavia)