C’è un’atmosfera spiacevole, attorno al “caso Fiat” e al suo unico mattatore, Sergio Marchionne. L’atmosfera pesante che si respirava in quei settanta – brevissimi e insieme lunghissimi – minuti di inchiesta che Report ha dedicato domenica sera su Raitre al caso Fiat, intervistando a lungo Marchionne a margine del Salone di Ginevra, in piedi in mezzo ai suoi, tra una presentazione e l’altra delle vetture Chrysler calandrate Lancia che verranno presto lanciate sul nostro mercato.
Spiacevole, poi, è l’atmosfera del casinò: c’è anche a chi piace, anzi piace a tanti. Certamente piace a lui, a Marchionne. L’atmosfera del rilancio permanente della sfida, guardando sempre avanti – e questo è un bene – ma un po’ meno indietro, a verificare che le promesse fatte siano state mantenute, gli impegni presi rispettati. Già: quali impegni, del resto, per l’Italia? Uno solo, aspecifico, per quanto “monstre”: 20 miliardi di investimenti. Se verrà approvato il piano ”Fabbrica Italia”, che ogni volta chiede nuove adesioni, nuovi sì.
È chiarissima invece la determinazione di Marchionne a salire al più presto al 51% di Chrysler, prima di riquotarla in Borsa. Chiarissima la sua determinazione a presentarsi come cittadino americano d’elezione prestato al mondo, prestato al suo lavoro anche torinese, prestato addirittura alla sua casa fiscale in Svizzera. Ma le poche o tante perplessità su questo o quell’aspetto incongruente nella strategia di Marchionne vanno scavallate nella speranza, che è e dev’essere di tutti, che alla fine il grande giocatore di Chieti abbia ragione, riesca ad affermare anche in Italia, sul mercato e nelle strade, la strategia vincente che ha finora gestito sul piano finanziario e societario. Che sappia affiancare a questi successi, un altro semplice successo: vendere più macchine. Del che dubitano però alquanto tutti i veri esperti di auto: mai successo che i macchinoni americani abbiamo fatto bingo in Italia. Le Jeep, quelle sì: un caso a parte, una nicchia. Ma non certo la spigolosa Chryler 300 C, che sarà anche una buona macchina, ma è lontana anni luce dalla bellezza e dal carisma della Thema e delle altre grandi Lancia del passato.
Quel che invece sicuramente non va è il leaderismo assoluto che Marchionne interpreta con inscalfibile trionfalismo. Lui lavora 18 ore al giorno, lui merita tutto il suo superstipendio, lui scrive gli spot, lui ridisegna di suo pugno i cruscotti delle auto, lui parla con Obama, lui, lui, lui. E quando gli chiedono se, a suo avviso, la famiglia Agnelli resterà azionista di controllo della Fiat a completamento dell’operazione Chrysler avvenuto, la replica sibilante è: “Questo chiedetelo agli Agnelli”. Neanche la creanza di aggiungere un: “Naturalmente io me lo auguro”. Se non altro, alla memoria di quell’Umberto Agnelli – una vita passata nell’ombra del brillante fratello Gianni, eppure uomo pieno d’intuizioni – che appunto scovò Marchionne al vertice dell’importante ma semisconosciuta multinazionale della certificazione Sgs, dandogli l’occasione della vita.
A margine, la questione della sede del quartier generale del gruppo: Torino o Detroit? “Non è un problema di oggi, ne parleremo quando sarà il momento, è un problema di governance”, afferma oggi Marchionne. Ma nossignore, non è un problema di governance. La holding sta a Torino, Fiat Auto che controllerà il 51% di Chrysler sta a Torino, il quartier generale può tranquillamente restare dov’è, lavori poi Marchionne dove e quanto preferisce nei molti luoghi dove la multinazionale Fiat già oggi produce.
Luxottica vende in Italia solo il 5% del suo fatturato, ma il quartier generale è ad Agordo, e l’amministratore delegato ha base a Milano; la Ferrero vende all’estero ben più di quanto riesca a fare la Fiat e i vertici, quando non girano i cinque continenti come trottole – non certo meno di quanto faccia Marchionne -, conservano ad Alba le loro scrivanie primarie. La buonanima di Raul Gardini, a chi lo criticava di non aver trasferito via da Ravenna il suo quartier generale, replicava sempre che “per il mio Falcon 900 andare da Ravenna a Londra o a Chicago, dove devo lavorare almeno quanto a Milano, è perfettamente la stessa cosa”: e aveva ragione.
Gli esempi potrebbero continuare, ma non servono: quando uno le sue radici non le sente in Italia, come non le sente Marchionne, è normale che cerchi di riavvicinarsi al luogo dove sa che si trovano. L’America.