Sabato sono scesi in centinaia di piazze italiane alcune migliaia di giovani per denunciare, secondo la loro prospettiva, il dramma della precarietà del lavoro in questo Paese. A leggere l’appello, tuttavia, sembra che il loro tempo non sia adesso, come viene enfaticamente affermato nel titolo. Si ha, infatti, la netta impressione che si legga il presente e si immagini il futuro con gli occhi rivolti al passato. Un passato che certamente non tornerà più.



>L’incertezza del proprio destino professionale diventa, infatti, precarietà di vita e disorientamento rispetto alle sfide del presente e di una società globale sempre più fluida e veloce in cui siamo chiamati a vivere. Nella dimensione del lavoro non si riescono, almeno nell’ottica dei promotori, a trovare le risposte a quelle aspettative che si ritiene siano state tradite da una classe dirigente economica, sindacale e politica incapace di farsi carico dei bisogni di una “generazione precaria”. La percezione di sé stessi è quella di essere cittadini di serie B, senza diritti, figli di un Dio minore, moderni schiavi di padroni delle ferriere globali.



Non c’è, tuttavia, nell’appello nessun passaggio in cui vengano avanzate proposte concrete per costruire un diverso e più moderno modello di società e di welfare che sappia mettere al centro la libertà responsabile della persona e la capacità sussidiaria delle comunità. Tantomeno vi si trova una riflessione sul senso del lavoro e sul contributo che ognuno di noi con la propria opera porta al progresso della collettività.

Giovani uomini e donne del terzo millennio, ma legati indissolubilmente alla cultura e all’eredità del ’68 di cui oggi personificano drammaticamente il fallimento. Infatti, l’idea di un falso egualitarismo non in grado di distinguere e premiare merito e talento è stato, in questi ultimi anni, messo duramente alla prova dimostrando tutta la sua fallacità.



Questa generazione di eterni giovani è certamente una grande risorsa per il Paese, ma deve almeno tentare di dare un cambio di marcia alla propria azione, perlomeno rispetto alle progettualità che le piazze di sabato hanno delineato. La sterile rivendicazione di diritti inesigibili nella situazione data non è certamente la strada da percorrere. È necessario tornare a scommettere su noi stessi, lanciare un’Opa sul nostro futuro, chiedere un nuovo patto intergenerazionale in cui anche la generazione dei padri sia chiamata a prendersi le proprie responsabilità.

Ispiace vedere tanti amici, colleghi e coetanei scendere in piazza a difendere i diritti, che a volte sembrano essere privilegi, di un’altra generazione e non lavorare, altresì, per costruire un nuovo diritto di cittadinanza sostenibile per i giovani del 2011 e per quelli che verranno. Manca poi nel documento un focus sul tema centrale dell’accesso al credito e alle politiche abitative. Troppo poco è un generico richiamo al diritto alla casa, che sembra essere uscito da vecchie foto in bianco e nero. La precarietà non è solo una questione di politiche del lavoro che può essere risolta con una sanatoria.

La sfida della “buona flessibilità” parte, infatti, dal rilancio della produttività nel Paese, dalla qualificazione di tutti quei servizi che supportano le imprese e i lavoratori nelle difficoltà quotidiane e da un complessivo ripensamento dei percorsi formativi che devono essere sempre più articolati lungo tutto il periodo della vita attiva e maggiormente legati alla dimensione lavorativa. Da queste esigenze e richieste, ritengo, sarebbe dovuta partire una piattaforma politica e culturale che un gruppo di giovani lavoratori si propone di presentare alla politica e alla società.

Oggi è il tempo di chiedere scelte coerenti ai nuovo modi di produrre e lavorare in materia di organizzazione dei servizi e di fruibilità delle nostre città, pensate troppo spesso partendo sulla base di un mondo del lavoro fordista superato dalla storia, non un irrealistico ritorno a un passato idealizzato e vissuto troppo spesso come un’utopia.

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