Molti media italiani ed europei si sono appassionati al tema della Big Society, quel “più società e meno Stato” che è stato una delle colonne portanti della campagna elettorale dell’attuale premier inglese, David Cameron, che ora sta facendo di tutto per metterla in atto anche in risposta alla crisi economica. E qual è, invece, la situazione in Italia?



Da noi la Big Society esiste da un pezzo, si chiama sussidiarietà, eppure stenta a essere riconosciuta dallo Stato (basti pensare al lunghissimo e non ancora concluso percorso della stabilizzazione del cinque per mille). Infatti, prima dell’emanazione dell’articolo 118 della Costituzione – in cui è contenuto il concetto di sussidiarietà – , si discusse se lo Stato dovesse “favorire” (come poi rimase nel testo costituzionale) o “riconoscere” l’esistenza delle reti della solidarietà sociale e dei corpi intermedi.



I sostenitori del secondo verbo, e io sono fra questi, sono convinti ancora oggi che, in Italia, il volontariato e l’associazionismo non profit esistono da molto prima della crisi mondiale. Le reti di solidarietà sociale, storicamente vivaci, ma dal valore spesso sconosciuto, dimostrano che la carità, la gratuità o la semplice tensione al bene comune sono da sempre iscritte nel nostro DNA di italiani. La nostra economia sociale non profit, dunque, è interamente fondata sulle persone e sul loro desiderio di bene.

Nella convinzione, dunque, che “anche nella società più giusta, la carità sarà sempre necessaria”, come ricorda Benedetto XVI, sarebbe bello che noi italiani rivolgessimo alla nostra storia (soprattutto nel 2011, che è l’anno dei festeggiamenti dell’Unità d’Italia, ma è anche l’anno europeo del volontariato) quell’attenzione che oggi poniamo al di là della Manica. Ad esempio, potremmo rilanciare la via italiana della Big Society con l’adozione di controlli “ex post” per il mondo del sociale – oggi praticamente inesistenti – invece degli attuali controlli “ex ante” che rischiano di bloccare in partenza gli onesti e di far dilagare chi compie abusi.



Attività come quelle di don Bosco che, alla fine dell’Ottocento, coinvolgevano migliaia di ragazzi emarginati e soli, rifiutati da ogni scuola (che oggi chiamiamo drop-out), non sarebbero possibili in un sistema come il nostro, pieno di controlli ex ante e incapace di valutare invece ex post l’efficienza e l’efficacia di un’opera; basti pensare, a titolo di esempio, all’infelice esperienza di Muhammed Yunus (Premio Nobel inventore del microcredito) che ha dovuto rinunciare ad aprire una filiale della Grameen Bank in Italia, a causa dei fiumi di regole e procedure che lo hanno bloccato ex ante. A questo punto occorre chiedersi se nel welfare contino di più le regole o la valorizzazione di tante attività volte ad accrescere il bene comune.

In questa chiave, molto importante può essere il ruolo del Cnel (dove i rappresentanti del non profit sono entrati nel 2001) per l’attenzione che il Presidente Marzano ha sempre posto verso il Terzo Settore e la Big Society (vedasi il suo intervento – ottobre 2010 – in occasione dell’insediamento dell’attuale Consigliatura) e per la possibilità che dal Cnel vengano proposte innovative su welfare e sull’economia sociale.

A ogni modo, senza una concezione positiva dell’uomo cui si contrappone l’attuale concezione dominante del “sospetto” secondo cui Homo homini lupus – e senza tensione ideale -, non si apre nessuna strada per costruire il bene comune. Ed è proprio questo anelito che è sotteso alla Big Society come alla sussidiarietà italiana, che rende possibile dire: “Più società fa bene allo Stato”. Stato che deve occuparsi del suo compito specifico: indirizzare e controllare, sempre teso a riconoscere tutto il positivo che c’è nella società civile.

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