Qualche settimana fa Alessandro (un ragazzo non facile, intelligente, 17 anni, terza professionale, in conflitto con i docenti) in presidenza mi dice che durante lo stage in azienda l’artigiano, nella cui bottega l’abbiamo mandato, è interessato a prenderlo a lavorare: quindi lui vuole lasciare la scuola. Neppure i genitori sono riusciti a fargli cambiare idea. A tre mesi dalla possibilità di conseguire una qualifica ha abbandonato la scuola.



Dopo la terza professionale, nel mio istituto (nel cuore della Brianza milanese) un terzo degli studenti non prosegue. Già nel passaggio dalla prima alla terza professionale se ne sono persi per strada un terzo. Quando arrivano in quinta, dalla prima ne abbiamo persi due terzi. Quelli arrivati all’uscita col diploma, però, riescono tutti a trovare lavoro: in tre-quattro mesi, anche in questi tempi di crisi, spesso con l’aiuto della scuola.



Nessuno di loro, però, trova un contratto stabile: per anni si dovranno adattare alle soluzioni più diverse, sotto la forma di stage o con assunzioni a termine. Quasi mai si tratta di apprendistato, una formula pressoché assente per l’inserimento giovanile nella vita attiva. Diversamente dai dati diffusi in questi giorni sull’istruzione e formazione professionale, nessuno dei nostri studenti nei primi tre anni riceve un contratto a tempo indeterminato.

Come mai questa precarietà? Come mai il lavoro, che pur esiste in tempi di crisi, non trova stabilmente chi lo sa fare? Le ragioni sono tante. Per un verso la scuola italiana è malata di teoria e lo stesso Riordino Gelmini ha prolungato questa triste china. Ma l’impresa sa cosa cerca? Un’inchiesta nella Brianza milanese in 52 aziende medie sul fabbisogno di tre figure professionali nel settore del mobile ha trovato grandi punti interrogativi e una diffusa incapacità di dare risposte non a breve, ma neppure a medio termine.



I ragazzi dei Professionali dei contratti di lavoro non si lamentano. Anzi, come Alessandro, se potessero li firmerebbero prima. Se di qualcosa si lamentano è per l’eccesso di studio teorico, l’eccessiva brevità di due settimane di stage in azienda su 33 di scuola: un loro collega studente francese o tedesco sedicenne fa tre mesi. E pensare che da noi la chiamano “alternanza scuola-lavoro”!

In genere, i nostri ragazzi non si trovavano male a scuola, dove hanno imparato i rudimenti, ma sono stati sommersi da troppa teoria: una classe prima Professionale “riformata” dei settori mobile-arredamento o meccanico passa in laboratorio 4 ore settimanali su 32. Una classe prima Istituto Tecnico neppure quelle. In Germania e Francia il primo stage a 15 anni è di 2 settimane, l’ultimo a 18 è, in alternanza, di tre mesi. Da noi, quando si trovano le aziende, dopo lungo “mendicare”, gli studenti riescono a fare 2 settimane a 18 e 2 a 19 anni.

Tra le ragioni della precarietà c’è anche la lontananza dell’impresa dalla formazione. Quando mai abbiamo visto grandi aziende italiane investire nella formazione gli 8,5 milioni di euro (dati Eurostat) che la Ksb (pompe idrauliche a Frankenthal) ha investito in un anno nel proprio Land (denotando anche un livello di consapevolezza del beneficio sociale in tal modo esercitato dal mondo dell’impresa)? E ci meravigliamo se la disoccupazione giovanile in Germania è solo dell’8,3%?

Occorre allora un sistema formativo che, tutto assieme (Stato, imprese, sociale) guardi i giovani come risorsa e non come costo; che offra percorsi realistici, che aiuti a scelte consapevoli, senza inseguire o favorire le mode. In Germania il sistema duale ha funzionato e funziona (Oidel). Purtroppo da noi l’abbandono del doppio canale (frutto di patetici e innaturali incroci culturali del 2004) ha impedito e impedirà una seria riqualificazione degli indirizzi tecnici e professionali. Se poi si pensa che in Italia è impedito il pagamento del tirocinio, non dico a 16 anni, ma persino al termine dell’Università… Persino la legge sulla nuova formazione degli insegnanti lo stabilisce: anche il docente laureato farà il tirocinio senza nessun riconoscimento economico. Per non parlare degli stipendi percepiti dopo apprendistato o tirocinio: il primo stipendio alla tedesca Ksb, finito l’apprendistato a 19 anni, è di 2200 euro lordi al mese (dati Eurostat).

La nostra, con buona pace di propaganda e intellettuali, è una scuola gentiliano-marxiana: dove, di solito, alle medie il lavoro manuale è il traforo; dove non si suonano strumenti, ma si studia storia della musica; dove invece di portare studenti all’estero a parlare inglese si studia storia della letteratura inglese del ‘500; dove le 32 ore di prima e seconda Tecnico meccanico o agrario sono tutte di studio sui libri, senza più uno straccio di laboratorio. È così che si genera la dispersione, la fuga dalla scuola. Dispersione e fuga non certo risolte dal sistematico calo delle iscrizioni negli Istituti Tecnici e Professionali, con un Riordino del Secondo ciclo che non può certo invertire la tendenza, non essendo riuscito a ridare dignità a questi percorsi, avendo depauperato le specializzazioni e  fortemente ridotto i laboratori. I modelli cui guardare per risalire la china non sono Inghilterra e Stati Uniti, ma Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Finlandia, Norvegia, dove la disoccupazione giovanile è tutta sotto il 10% e dove si è fatto quadrato nel difendere i mestieri artigianali, le professioni tecniche.

Dove, nonostante tutto, si è salvaguardato un patrimonio tecnico, professionale e di sana cultura del lavoro? In quegli Istituti Tecnici e Professionali che non hanno ceduto alla liceizzazione o all’ottusità delle caste sindacali, ma che hanno cercato forme nuove di rapporti con le imprese, o dove ci si è arrangiati (tipico genio italico) a rinnovare i macchinari, cercando sponsor, facendo accordi con imprese straniere. Quanti sanno che Toyota ha sostenuto fior di Istituti Professionali della meccanica? Tutto questo è accaduto grazie a docenti o presidi che non sono scappati ai licei e si sono ingegnati a trovare aziende piccole o medie disposte a prendere i ragazzi in stage, mendicando ogni anno il “parco imprese”. Quanti sanno che le grandi fabbriche e banche italiane non prendono per scelta gli studenti in stage?

Oggi creare le condizioni per accompagnare e favorire la positiva transizione dei giovani dalla scuola al lavoro è divenuto un imperativo vitale: per i giovani stessi, per il loro equilibrio umano, prima ancora che per le aziende che ne hanno bisogno. Purtroppo gli ostacoli non sono pochi. La crisi socio-economica è senza precedenti nel dopoguerra, ma proprio ora serve investire nell’istruzione e formazione. L’irresponsabile rissosità politica toglie il fiato a ogni seria costruzione di soluzioni per il lavoro e lo sviluppo. La classe dirigente, poi, politica, economica, imprenditoriale e finanziaria e culturale è tra le peggiori del dopoguerra: “passista e passata” (come ha detto Bonanni).

Ma De Rita ci ha “rimproverati”: rischiamo di rinunciare a desiderare novità, per noi, per le nostre comunità locali e professionali. Grandi uomini del nostro momento (Benedetto XVI, Giorgio Napolitano) ci sferzano a costruire, a rinnovare. In questa urgenza serve costruire assieme una positiva e seria cultura del lavoro (direi: un umanesimo del lavoro) e della formazione professionale. Tra le condizioni che possono favorire questa transizione ci potrebbero essere quelle offerte dalla riattivazione dell’apprendistato: per i giovani, che possono persino conseguire un titolo di studio, lavorando in azienda; per le imprese, che hanno l’opportunità di conoscere, formare e far crescere forza lavoro giovane, all’interno del perimetro aziendale. L’anomalia italiana è quella di ritenere normale che l’apprendistato non faccia parte del sistema educativo: resta diffusa l’opinione che l’apprendistato dei minori sia il luogo dove approdano quelli che hanno fallito la scuola, i demotivati, i disabili.

Da preside di un istituto professionale statale mi auguro proprio che finalmente in Italia possa avviarsi il canale formativo dell’apprendistato e ringrazio chi potrà farlo non a parole, ma imparando da Germania e Francia che l’hanno da decenni. Lì questo tipo di legislazione è un ottimo riferimento che funziona, così come l’alternanza scuola-lavoro che da noi è puro slogan da convegni.

Per l’apprendistato mi permetto di suggerire (dall’esperienza di troppi ragazzi persi) alcune condizioni indispensabili: non iniziare a 15 anni, a meno di introdurre una seria legge sull’alternanza formativa scuola-lavoro; inserire seri incentivi per le aziende; fare almeno il primo anno in collaborazione con le scuole e istituti professionali con almeno 300 ore; prevedere un “minimo salariale” con possibilità di contratti regionali e aziendali migliorativi; semplificare norme e competenze (il grande male italiano dell’accentramento e della confusione, questi sì sempre in crescita); spingere le imprese, specie quelle artigiane a legarsi (sponsorizzare, adottare) alle scuole del territorio, le quali debbono essere costrette ad accogliere loro rappresentanti; stabilire un termine d’età chiaro oltre il quale si avvii il contratto normale di lavoro.

La vera sfida alla fine è nel clima della comunità scolastica: la personalizzazione praticata come attenzione e accoglienza; il coinvolgimento personale di chi insegna; insegnamenti e attività legate all’esperienza reale; stage e attività integrative concepiti come funzionali al percorso educativo e formativo; un orientamento scolastico fatto di esperienza e incontri; una forte alleanza con le famiglie e con il sistema imprenditoriale locale.

Forse così anche Alessandro potrebbe tornare a scuola.