Il caso Thyssen è di quelli sui quali una sinistra occidentale, se ne esistesse il campione anche in Italia, dovrebbe dire quelle parole chiare che invece da nessuna parte siamo riusciti ancora a sentire.

Dovrebbe riaffermare cioè due verità granitiche, anche se in apparenza – solo in apparenza – contrapposte:

1) che l’incuria in cui i vertici aziendali hanno permesso che venissero lasciate le attrezzature difettose a causa delle quali nel 2007 morirono sette operai della fabbrica siderurgica di Torino è un crimine di una gravità sconvolgente, figlio di una sottocultura pseudomanageriale che, anziché essere esecrata come ignobile e indegna di un’impresa legittima e moderna, viene continuamente celebrata: utili, utili, utili e basta;

2) che, però, l’omicidio volontario è un’altra cosa, e va quindi addebitato, come reato, solo a chi deliberatamente e volontariamente tolga la vita a qualcun altro, sapendo di starlo facendo mentre lo fa, e non a chi costruisce le condizioni perché una morte avvenga ma non la determina.

Questo nostro disgraziato Paese, invece, non trova a sinistra interpreti di queste constatazioni ovvie. Per cui il caso Thyssen finisce sugli altari della cronaca solo per la sentenza clamorosa: oltre 16 anni di carcere per “omicidio volontario” a un signore tedesco lontano mille chilometri dal luogo della strage e del tutto ignaro delle persone e delle dinamiche che hanno condotto alla strage stessa; oppure per il deplorevole applauso con cui gli industriali riuniti il 7 maggio alle Assise generali della Confindustria di Bergamo hanno acclamato l’amministratore delegato della ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, quando lamentava che un criterio giudiziario come quello applicato contro di lui dai giudici di Torino è tra i fattori che allontanano gli investimenti stranieri dall’Italia.

Mentre il caso Thyssen dovrebbe far discutere per un’altra ragione: per costruire, cioè – consensualmente imprese, sindacati e istituzioni -, un modo di vedere la gestione dei grandi impianti industriali ispirato non solo alla logica del profitto ma, prioritariamente, a quello del rispetto della vita umana e delle altre grandi compatibilità ineludibili: l’ambiente, la dignità della persona, i diritti civili di base. Insomma: non solo il profitto, ma prima di esso, l’uomo.

Se nel nostro Paese la cultura giuridica, una volta celebre nel mondo, non si fosse intorpidita e come degradata sotto il peso delle polemiche di parte, risulterebbe chiara a tutti la necessità di graduare diversamente la fattispecie di reato dell’omicidio colposo. Facciamo un esempio chiarissimo: in numerose sentenze di Cassazione si è decisa la condanna per omicidio volontario in casi di investimenti stradali commessi da automobilisti ubriachi.

La tesi è che chi si mette alla guida di un’auto sapendo – e non si può negare che lo sappia – di aver bevuto molto alcool espone deliberatamente non solo se stesso ma anche gli altri a un rischio mortale che, se si invera, va sanzionato come un atto volontario. Diversissimo è il caso di chi guidando correttamente e in buone condizioni, intravede all’ultimo momento un ostacolo improvviso – tipicamente, un bambino che si lancia attraverso una strada senza guardare – e pur frenando non riesce a evitarlo: ce l’ha messa tutta, se n’è accorto in tempo, non era in eccesso di velocità, e perciò anche se ha di fatto ucciso non è un omicida.

Ebbene. Il caso della Thyssen è chiaramente equiparabile alla prima fattispecie, quella della consapevolezza colpevole di aver posto le premesse (in un caso l’ubriachezza, nell’altro l’obsolescenza delle attrezzature) per il probabile verificarsi di una o più morti violente. Per il codice penale, in casi di massima aggravante, anche all’omicidio colposo può essere comminata una pena molto maggiore al massimo solitamente previsto (cioè 5 anni), ma comunque fino ai 12 anni. La sentenza di Torino ha quindi voluto essere esemplare – nel primo grado: perché tutti scommettono su una sua revisione nei gradi successivi – non tanto per l’entità della pena, quanto per la scelta del reato del quale riconoscere colpevole il manager: omicidio volontario.

Sarebbe necessario trovare per i casi di questo genere – ahimè frequenti – una nuova fattispecie di reato – incuria omicida? – che facesse chiarezza e, soprattutto, nuove fattispecie di pena: per esempio, sarebbe assai più utile che i personaggi di vertice delle organizzazioni imprenditoriali che si rendessero colpevoli di questi reati più che essere condannati a improbabili lunghe pene detentive venissero inibiti dal rivestire ulteriormente quelle funzioni organizzative, con responsabilità amministrative: un po’ come capita ai banchieri che vengono condannati per reati contro il patrimonio o per reati societari e finanziari.

Sarebbe stato tanto di guadagnato per tutti se il signor Espenhahn, anziché essere messo nelle condizioni di far la vittima davanti a seimila inconsapevoli industriali plaudenti, e anziché essere condannato a 16 anni di carcere che non sconterà mai, fosse stato messo nelle condizioni di non nuocere più: che vada a coltivare la terra o a fare l’archeologo o l’archivista, ma insomma non si occupi più di attività organizzative che abbiano a che fare con la pelle del prossimo.

Chissà se è di sinistra, quest’idea. Probabilmente è di sinistra chiedere alle imprese – quelle italiane rappresentate da Confindustria – di inserire nel prossimo contratto di lavoro dei dirigenti una clausola per la quale i manager delle aziende con alti tassi di incidenti sul lavoro paghino economicamente, e collettivamente, con significative decurtazioni sullo stipendio, il ripetersi di simili eventi, a prescindere dalle responsabilità soggettive. Se tutti lavorano per i bonus di fine anno collegati all’utile, che tutti rischino almeno di perdere soldi per un malus di fine anno collegato a eventuali incidenti sul lavoro.

Che insomma la logica del profitto non sia l’unica a regolare i rapporti di interesse dentro le aziende. Questo non è di destra, né di sinistra: è semplicemente umano.