Una recente ricerca del Cedefop (Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale) mostra che in Europa si sta sempre più consolidando un processo di polarizzazione nel mercato del lavoro, che vede una crescente domanda relativa di professioni sia di elevata qualifica che di bassa qualifica, con conseguente riduzione delle categorie intermedie.

Questo fenomeno non è nuovo, è all’opera da diversi anni negli Usa e ha una spiegazione condivisa nella letteratura: il progresso tecnologico è skill biased, ovvero tende a premiare sempre di più certe skills e a penalizzarne altre. Tuttavia le skills premiate dal progresso tecnico non sono solo quelle elevate, ma risultano anche quelle che corrispondono a basse qualifiche. Infatti, l’effetto primario del progresso tecnico è quello di ridurre la domanda relativa di lavori di carattere routinario che risultano essere quelli intermedi in termini di qualifiche e remunerazione.

Al contrario, le professioni che richiedono competenze non routinarie e ad alto contenuto di capitale umano conoscono un aumento della domanda relativa. Tali professioni non definiscono solo i lavori “astratti” o “di concetto” che richiedono le competenze o specializzazioni più elevate, ma anche quelle elementari nelle quali il capitale umano risulta decisivo (si pensi alle professioni elementari nell’ambito assistenziale in crescita esponenziale).

Anche in Italia la polarizzazione nel mercato del lavoro è un fenomeno documentato (si vedano i risultati delle indagini Excelsior degli ultimi anni), ma esso presenta anche peculiarità uniche nel panorama europeo. Generalmente, infatti, la polarizzazione nel mercato del lavoro è associata a una polarizzazione nelle retribuzioni che tuttavia in Italia risulta meno accentuata che negli altri paesi.

Molti pensano che questo sia un aspetto positivo del sistema italiano e per certi versi lo è, soprattutto perché implica una minore diseguaglianza dei redditi. Tuttavia vi sono anche lati negativi nella scarsa polarizzazione salariale nel mercato del lavoro italiano. In particolare, ciò che risulta particolarmente basso in Italia è lo skill premium associato all’educazione, soprattutto quella terziaria.

Le statistiche Ocse mostrano che la quota della popolazione tra i 25 e i 64 anni che ha raggiunto la laurea è attorno al 13% in Italia, contro il 26% della Francia e il 24% della Germania. A fronte di ciò, il premio salariale che in media si ottiene passando da una educazione secondaria a una terziaria è del 15% più basso che in Francia e del 25% più basso che nel Regno Unito (addirittura del 50% se il confronto è effettuato con gli Usa ove peraltro la quota della popolazione 25-64 con la laurea è al 40%).

Una parte della spiegazione sta nell’inefficienza del sistema universitario italiano che tende a laureare gli studenti più tardi che in altri paesi (se l’università dura più a lungo, il costo opportunità associato a essa è maggiore e di conseguenza il premio salariale minore), ma la principale causa deve essere ricercata nel mercato del lavoro che offre remunerazioni davvero poco remunerative per i nostri “cervelli”. Se la laurea “rende poco” che incentivo c’è per i giovani a investire tempo ed energie in essa?

Peraltro il dibattito politico poco aiuta in questo senso: esso è totalmente concentrato sulla diatriba precarietà/flessibilità senza considerare il fatto che la flessibilità è meno problematica se è associata a un salario più elevato. Il vero problema dei nostri laureati, in particolare quelli delle categorie a maggiore richiesta (ad esempio, gli ingegneri), non è che non viene loro offerto un contratto a tempo indeterminato, quanto piuttosto che ottengono una remunerazione iniziale che non dà ragione dell’investimento in istruzione effettuato e che è sensibilmente inferiore ai propri pari in altri paesi europei.

Non stupisce allora che il desiderio di emigrare sia sempre più forte. Alla fine dell’Ottocento, il nostro Paese ha conosciuto un forte fenomeno migratorio, ma allora esportavamo manodopera poco qualificata, ora esportiamo i cervelli, nonostante il fatto che di essi le nostre imprese hanno bisogno e li domandano, anche se non li pagano a sufficienza.

Tutto ciò si ricollega a un altro dibattito che è fortemente presente nel nostro Paese: quello relativo al merito. È fondamentale valorizzare il merito, ma per farlo occorre premiarlo, ovvero pagarlo. Senza questo presupposto vengono meno gli incentivi di base e continuiamo a guardare gli altri da lontano.