A 50 anni dalla sua emanazione (20 maggio 1961), l’enciclica Mater et Magistra del Beato Papa Giovanni XXIII appare, a un’attenta lettura, non solo attuale, ma anche profetica, in quanto ancora se ne possono cogliere e apprezzare spunti e riflessioni che se fossero opportunamente tradotti in operatività nel tessuto economico-sociale lo renderebbero più umano e giusto.
Non mi sento di condividere il pensiero di alcuni che, sbrigativamente e pregiudizialmente, concludono che questa enciclica ormai cinquantenne sia datata. E questo lo affermo per due diverse motivazioni: ciascuna enciclica sociale, pur essendo figlia del proprio tempo, non può essere considerata “superata” in quanto, da un lato, la sua centralità di riferimento è sempre l’uomo e l’equa soddisfazione dei suoi bisogni economico-sociali; dall’altro, le varie encicliche sociali formano una sorta di continuità storica in quanto ciascuna trova la sua ragione d’essere, e quindi il suo radicamento, in tutte le precedenti e, a sua volta, la singola enciclica diviene riferimento per le successive. In altre parole, le encicliche sono fatte per il tempo, non per il momento. Nel momento suscitano interesse, poi occorre che il tempo lavori, o meglio che gli uomini “lavorino” su di esse e con esse nel tempo.
La Mater et Magistra è profondamente radicata nelle due precedenti encicliche sociali (di cui quest’anno ricorrono rispettivamente il 120° e l’80° anniversario): Rerum novarum (Leone XIII) e Quadragesimo anno (Pio XI) e anche nei radiomessaggi sociali di Pio XII. Dobbiamo però evidenziare come Giovanni XXIII trovi, in maniera particolare, abbondanti spunti di riflessione nella seconda delle due encicliche richiamate. La Quadragesimo anno, infatti, meriterebbe di essere rivisitata e studiata non solo perché congiunturalmente incastonata nella grande crisi economica del 1929 e perché profondamente profetica rispetto agli accadimenti successivi del capitalismo finanziario (di cui anche oggi sopportiamo le conseguenze), ma anche perché “scopre” spunti nuovi di proposizione solutiva nel declinare il principio di sussidiarietà, attraverso il quale è possibile perseguire solidariamente il bene comune.
Fra i vari e interessanti punti di riflessione della Mater et Magistra intendiamo soffermarci su quelli che investono il rapporto capitale e lavoro. Il capitale, a cui evidentemente viene collegato il diritto di proprietà e il conseguente uso dei beni materiali, ha il primario obiettivo del “sostentamento” della persona, ma questo obiettivo sebbene “naturale” non può essere interpretato in maniera assoluta, in quanto, in maniera prioritaria, ci si deve sempre riportare al principio di destinazione della ricchezza, per cui il diritto di proprietà e dell’uso dei beni (capitale) deve “essere configurato in maniera da non costituire un ostacolo a che sia soddisfatta l’inderogabile esigenza che i beni […] equamente affluiscano a tutti, secondo i principi della giustizia e della carità” (30).
Viene così ribadito (il già sottolineato dai suoi predecessori) principio dell’equità e giustizia sociale nella gestione e nella destinazione della ricchezza. Viene precisato: “La proprietà privata, anche dei mezzi strumentali, è un diritto naturale che lo Stato non può sopprimere. Ad essa è intrinseca una funzione sociale, e però un diritto che va esercitato a vantaggio proprio e a bene degli altri” (11). Da cui ne consegue che il capitale ha una duplice funzione: è un bene essenziale per la soddisfazione dei bisogni della persona, mentre la parte non destinata ai consumi deve essere investita per la creazione di posti di lavoro e per lo sviluppo economico della collettività.
Per postulare adeguatamente questi due obiettivi, è necessario che “il diritto di ogni uomo di usare quei beni per il suo sostentamento è in rapporto di priorità nei confronti di ogni altro diritto a contenuto economico; e però anche nei confronti del diritto di proprietà” (30). Il capitale, come ogni altro “talento”, deve essere “usato” rispettandone l’ontologia; esso, normalmente, nasce dal lavoro per la soddisfazione dei bisogni, proprio per questo, però la parte non consumata deve solidariamente ritornare a produrre lavoro.
Una delle preoccupazioni di Pio XI e che Giovanni XXIII fa propria è questa: il libero mercato era stato sostituito dal capitalismo meramente finanziario, il quale iniziava a mutare radicalmente i rapporti socio-economici trasformando la libera concorrenza nell’impari lotta del pesce più grande che “deve” mangiare il pesce più piccolo e sostituendo la congrua remunerazione dei fattori produttivi intervenuti nelle produzioni, con la possibilità di “scommesse” di tipo finanziario sempre più lucrose e spesso anche slegate dalle reali produzioni di beni e di servizi; per cui sempre più si viene ad assistere al capitale che “deve” produrre altro capitale anche a discapito del lavoro, proponendo così il dominante principio del capitalismo finanziario secondo il quale il capitale è primario rispetto al lavoro.
Riprendendo le stesse parole della Quadragesimo anno Giovanni XIII scrive: “La libera concorrenza, in virtù di una dialettica ad essa intrinseca, aveva finito per distruggere se stessa o quasi; aveva portato una grande concentrazione della ricchezza e all’accumularsi altresì di un potere economico enorme in mano di pochi e ‘questi spesso neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento’. Pertanto, come osserva con perspicacia il sommo Pontefice (Pio XI), ‘alla libertà di mercato è sottentrata l’egemonia economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele’, determinando l’asservimento dei poteri pubblici agli interessi di gruppo e sfociando nell’imperialismo internazionale del denaro”. (23; 24).
Si noti come Pio XI, anche alla luce dei disastrosi effetti della grande crisi del 1929, sottolinei che nel capitalismo si stava inserendo, modificandolo, la sfrenata cupidigia alla già non positiva bramosia del lucro. Sarà questo, sino a i nostri giorni, uno dei passaggi tragici del capitalismo finanziario per cui, continuamente, esso tenterà di modificare il libero mercato, regolamentato nell’interesse di tutti, nel mercato capitalistico con sempre più esigenze di deregulation. Tutto questo, perché “non si può assumere come criterio supremo delle attività e delle istituzioni del mondo economico l’interesse individuale o di gruppo, né la libera concorrenza, né il predominio economico, né il prestigio della nazione o la sua potenza o altri simili” (26).
Il ragionamento di Giovanni XXII, radicato e combinato con quello espresso ben trent’anni prima da Pio XI, coglie nella sua totalità l’insana trasformazione che viene attuata del e nel libero mercato da parte del capitalismo finanziario. Altro che encicliche superate! La Quadragesimo anno e la Mater et Magistra sono un faro profetico anche per la lettura dell’attuale crisi economica. La Quadragesimo anno inizia a vedere e la Mater et Magistra accerta e conferma l’esistenza di comportamenti capitalistici rivolti alla mera speculazione e a una sempre più massiccia separazione nelle imprese, specialmente in quelle di maggiori dimensioni, tra proprietà e scelta controllata delle strategie e della gestione.
Siamo di fronte alla spersonalizzazione completa della grande impresa, essa diviene manageriale, saranno i “direttori” il vero centro del potere. Le grandi imprese, pur rimanendo all’interno di strutture capitalistiche (per cui, almeno formalmente, il processo decisorio e la volontà più alta dovrebbero essere ricondotti a coloro che hanno conferito il capitale di rischio), hanno il capitale, ma (così come osserva Berle) non hanno più il capitalista in quanto si è “frantumato” in un numero considerevole di “finanziatori non imprenditori” che, sempre più, dimostrano di essere dei meri rentier. Rentier, sostanzialmente, disinteressati all’impresa come tale, e unicamente interessati a perseguire il massimo profitto possibile dal loro parcellare investimento effettuato nel capitale di rischio dell’impresa.
Le assemblee societarie – così come osserva Galbraith – saranno destinate a celebrare “riti vuoti”, perché il capitale estremamente frazionato normalmente le diserta e quando è presente non è in grado di “concentrarsi” per incidere. Si ha così, per molti aspetti, il cambiamento della stessa natura dell’impresa. Essa non è più il luogo privilegiato per la produzione di beni e servizi ove capitale e lavoro si incontrano per perseguire insieme obiettivi di sviluppo sociale; l’impresa ora è divenuta una sorta di prodotto finanziario su cui “giocare” e “scommettere”. Essa “vale” perché può far crescere l’investimento, altrimenti il rentier l’abbandona e va a “giocare” e “scommettere” altrove.
Giovanni XXIII auspica che nel mondo economico in generale e in quello delle imprese in particolare debbano essere presenti comportamenti giusti, rispettosi delle leggi, ma soprattutto ispirati all’equità. Il rispetto dell’equità permetterà di costruire strutture e di instaurare rapporti produttivi sempre più conformi alla dignità dell’uomo “non solo nella distribuzione della ricchezza, ma anche in ordine alle strutture delle imprese in cui si svolge l’attività produttiva” (69). Proprio a questo fine, nelle imprese “deve essere offerta la possibilità di temperare il contratto di lavoro con il contratto di società” (71).
Nel riportarsi, con questa espressione, al Radiomessaggio di Pio XII (del 1° settembre 1944), Giovanni XXIII intende richiamare anche quanto, ancora prima, era stato affermato da Pio XI nella Quadragesimo anno e che egli aveva già richiamato nella Mater et Magistra quando scriveva: “In questa materia, chiaramente indica il nostro predecessore, nelle presenti condizioni è opportuno temperare il contratto di lavoro con elementi desunti dal contratto di società, in maniera che ‘gli operai diventino cointeressati o nella proprietà o nell’amministrazione o compartecipi in certa misura dei lucri percepiti’” (20).
(1 – continua)