In una società il disoccupato è un uomo che soffre un attentato grave alla coscienza di sé stesso: è in condizioni tali per cui la percezione dei suoi valori personali risulta sempre più annebbiata” (Don Giussani, Il Senso Religioso, p. 47, Rizzoli): è un dato evidente per chi ha vissuto la disoccupazione o per chi incontra frequentemente persone disoccupate che, senza l’impegno con la realtà implicato nel lavoro, l’uomo tende a smarrire la percezione delle proprie capacità e dei propri talenti ed è molto più difficoltosa la scoperta dei fattori umani che lo costituiscono.



Crescono così i sentimenti di frustrazione e rassegnazione, se non di vera e propria depressione, che rendono ancora più difficile la ricerca di un nuovo lavoro avvitando la persona in un circolo vizioso di non facile soluzione: lo scoraggiamento e l’appiattimento del desiderio diventano una minaccia al reperimento di un impiego più grande della stessa crisi economica o della scarsa attrattività del nostro mercato del lavoro.



Certo, si obietterà non senza ragione: il lavoro stesso può essere frustrante e, in alcuni casi alienante, senza bisogno di scomodare Karl Marx, sia per condizioni esterne che, innanzitutto, per eccessiva passività o eccessivo coinvolgimento del lavoratore. Ma per scoprire la necessità di viverlo con una domanda viva di significato è pur indispensabile essere impegnati col lavoro. Il valore del lavoro non è dunque solo legato al suo risvolto economico, pur importante, ma alla possibilità stessa di realizzazione della persona.

Tale considerazione, che emerge con evidenza dall’esperienza di ciascuno, non è per nulla scontata nelle politiche che hanno regolato le relazioni industriali spesso in una logica di contrapposizione ideologica tra parti sociali, in cui domina una riduzione economicista del lavoro e quindi del lavoratore. Le crisi che ci hanno colpito negli ultimi anni e i cambiamenti globali del mercato del lavoro ci stanno costringendo a riconoscere gli enormi limiti di questo approccio alle politiche passive e anche a quelle attive sul lavoro.



Anche le diverse proposte di legge presentate in Parlamento (rimando, a questo proposito, all’articolo di Cesare Pozzoli pubblicato su queste pagine il 22 aprile scorso), pur presentando diversi spunti di miglioramento, non sembrano essere completamente rispondenti all’esigenza umana, individuale e macro-economica insieme, di favorire al massimo la continuità occupazionale della persona come istanza prioritaria rispetto a qualsiasi altra.

Come sempre accade, più che le disquisizioni normative e accademiche, ci vengono in aiuto esperienze reali in atto che implicano, di fatto, un giudizio culturale e un metodo nuovo ed esemplificano risultati più efficaci del passato. Uno fra gli altri è il caso della recente vertenza Indesit riguardante la chiusura degli stabilimenti di Brembate di Sopra (Bg) e Refrontolo (Tv): il caso sta già facendo scuola (lo stesso ministro Sacconi lo ha definito, in una recente intervista, un modello da perseguire di accordo tra le parti sociali e di gestione delle ristrutturazioni) ed è stato già ripreso in altre situazioni di ristrutturazioni aziendali, pur essendo stato messo in ombra mediaticamente dal caso Fiat.

In buona sostanza, l’accordo, firmato a metà del dicembre scorso da tutte le sigle sindacali, compresa la Fiom, e approvato con referendum dagli oltre 500 lavoratori degli stabilimenti interessati con percentuali di favorevoli che hanno sfiorato il 90% (a fronte della chiusura delle fabbriche!), mette al centro la continuità occupazionale dei lavoratori e non più soltanto gli ammortizzatori sociali e gli incentivi economici all’esodo volontario del lavoratore. L’azienda, per la prima volta in vertenze di queste dimensioni, oltre che mettere sul piatto investimenti per accorpare la produzione in Italia senza delocalizzare, ha destinato importanti risorse per favorire il ricollocamento del personale e la reindustrializzazione dei due siti produttivi.

Dopo le iniziali incertezze e gli immancabili scetticismi, l’approccio ha gradualmente convinto tutti e, sia l’accordo stesso che i primi confortanti risultati della sua implementazione, sono frutto di una co-responsabilizzazione e di una unità di obiettivi tra tutte le parti coinvolte: azienda e advisor, organizzazioni sindacali, istituzioni nazionali (ministeri dello Sviluppo economico e del Lavoro), enti locali (Regioni, Province e Comuni), associazioni d’impresa territoriali.

Si è svolto un lavoro di ricerca sul territorio di aziende interessate ad assumere a tempo indeterminato a condizioni incentivate ovvero a subentrare nei siti produttivi, che ha portato, in soli due mesi prima della stipula dell’accordo e ancora in piena crisi occupazionale generale, a manifestazioni di interesse per oltre 300 dei 510 lavoratori in uscita. Oggi, a meno di un mese dalla chiusura degli stabilimenti e dall’inizio della cassa integrazione straordinaria per chiusura, già oltre un terzo dei lavoratori ha già definito la propria posizione dimettendosi o essendo ricollocato direttamente attraverso il processo gestito dall’azienda stessa che lo sta licenziando.

Ciò che colpisce di più nella vicenda è come, di fronte a un approccio tutto focalizzato sulla responsabilità della persona e su una concezione positiva del lavoro scevra da ogni contrapposizione ideologica, si sia destata una collaborazione attiva da parte di tutti gli attori coinvolti: in primis i lavoratori che, pur nella difficoltà ad accettare la chiusura di una fabbrica dove la maggior parte di loro lavorava da più di dieci anni, hanno aderito alle offerte di lavoro proposte in modo superiore alle aspettative senza conformarsi a una logica attendistica “coperta” dalla cassa integrazione.

Molto lavoro rimane ancora da fare per l’implementazione dell’accordo sia sul fronte della reindustrializzazione, sia con l’affiancamento di ulteriori strumenti al ricollocamento come l’outplacement e la riqualificazione professionale, ma credo che nessuno si aspettasse già a oggi dei risultati misurabili così confortanti.

I vantaggi di un tale approccio non sono solo quelli evidenti per i lavoratori, il territorio e le casse statali (minor permanenza in cassa integrazione del lavoratore e sostegno indiretto ai consumi interni), ma anche per l’azienda stessa che si ristruttura: oltre ai benefici legati al ritorno reputazionale per la responsabilità sociale dimostrata, ve ne sono altri di natura industriale (riduzione della conflittualità con le parti sociali significa maggior rapidità nella realizzazione del proprio piano industriale e dunque maggiore competitività) ed economico-finanziaria (ad esempio, con il taglio dei contributi alla mobilità rateizzati a carico dell’azienda quando è l’azienda stessa a ricollocare il lavoratore in uscita). Alla fine, le maggiori risorse messe in campo per ricollocamento e reindustrializzazione rispetto a una vertenza “tradizionale” vengono compensate, anche economicamente, da questi ritorni.

Certamente, non tutte le aziende, soprattutto quelle di dimensioni medio-piccole, hanno la forza per intraprendere un percorso così innovativo: e qui, a mio avviso, deve intervenire il legislatore incentivando in modo più energico e puntuale l’impegno dell’azienda in tal senso. Se la coperta delle risorse pubbliche, manco a dirlo, fosse corta e si dovesse ragionare a importi costanti destinati alle politiche passive e attive per il lavoro, meglio sarebbe togliere qualcosa alla copertura delle spese per la cassa integrazione e metterlo sulle politiche attive inducendo in modo incisivo, se non obbligando (come accade in Francia e in altri paesi europei che non prevedono la cassa integrazione), l’azienda a ripristinare entro un determinato periodo di tempo i posti di lavoro tagliati, facendosi parte attiva nel ricollocamento e nell’eventuale reindustrializzazione delle aree dismesse.

È chiaro, infatti, che tale ribaltamento di prospettiva non può essere sopportato in toto dalle aziende che, nella maggior parte dei casi, ristrutturano perché sono in crisi finanziaria, anche se oggi le ristrutturazioni diventano la norma anche per aziende in salute che vogliono rimanere flessibili e competitive a fronte dei sempre più frequenti cambiamenti delle caratteristiche del mercato e dei settori in cui operano. Dunque, servono doti di reimpiego erogate dalla pubblica amministrazione in parte a risultato ottenuto, non solo a favore del lavoratore, ma anche direttamente a favore dell’azienda che ristruttura o dell’azienda che assume lavoratori da situazioni di riassetto organizzativo.

Se bilanciata da una riduzione della cassa integrazione, sarebbe una riforma a costo zero ma di portata innanzitutto culturale rivoluzionaria: riconoscerebbe fattivamente al lavoro, e non solo al suo risvolto economico, la sua dignità e la sua funzione indispensabile allo sviluppo della persona.

Un’ultima notazione riguarda la formazione per la riqualificazione professionale: dai dati aggiornati al gennaio 2011, in Italia si presenta il paradosso che, a fronte di oltre 400mila lavoratori formalmente occupati, ma a rischio di perdita del lavoro perché in aziende in crisi incancrenite (oltre ai più di 2 milioni di disoccupati), abbiamo poco meno di 150mila posti di lavoro vacanti che le aziende offrono e non riescono a reperire.

Per la maggior parte dei casi essi sono relativi a mansioni che richiedono competenze nuove e molto specifiche, non colmabili da corsi “a catalogo” e formabili solo sul posto di lavoro a fianco di un maestro. Da questo punto di vista è necessario sostenere direttamente l’impresa, soprattutto la piccola e media, che investe assumendo lavoratori che deve riqualificare “on the job”, premiando il rischio che si assume. Le risorse pubbliche per la formazione professionale devono dunque riversarsi direttamente sulle imprese invece che disperdersi spesso in rivoli legati a soggetti intermedi non sempre focalizzati sui reali bisogni di competenze delle aziende e sulla ricollocabilità effettiva del lavoratore.

Nella stessa direzione positiva andrebbe il potenziamento e il rilancio del contratto di apprendistato non solo per i giovani, ma anche per chi, a qualunque età, debba e voglia rimettersi in discussione per riqualificarsi e poter lavorare in un mondo che cambia molto più velocemente delle nostre politiche, sperabilmente tese a essere le più semplici e insieme le più flessibili possibili.

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