Mezzo milione di giovani occupati in meno in soli due anni. È questo uno dei verdetti del Rapporto annuale Istat sulla situazione dell’Italia presentato ieri alla Camera dei deputati. Tra gli under 30 i posti di lavoro persi tra il 2009 e il 2010 sono stati 501mila. Come se non bastasse, il 30,8% dei giovani occupati (oltre un milione di unità), ha contratti a tempo determinato o collaborazioni. Crescono poi i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione: nel 2010 erano oltre 2,1 milioni, 134mila in più rispetto al 2009 (+6,8%). Nel nostro Paese, infine, i salari non crescono anche per colpa di una produttività del lavoro che, nonostante l’aumento registrato nel 2010, resta sotto il livello del 2000. Di questi temi abbiamo parlato con Giorgio Santini, Segretario generale aggiunto della Cisl.



Santini, cosa pensa del quadro che emerge dal Rapporto Istat, in particolare sul problema della produttività del lavoro?

Purtroppo è una conferma di analisi e di valutazioni che sono state fatte in modo ricorrente in questi anni e che fa risaltare i limiti del nostro sistema, dipendenti in larga parte da tre fattori. In primis problematiche strettamente economico-produttive, su cui però ci sono margini di miglioramento. Ci sono poi delle riforme mancate che frenano le liberalizzazioni, la crescita e l’innovazione, e che necessiterebbero di essere condivise, realizzate con decisione e promosse dalle stesse istituzioni. Infine, vi sono antichi vizi che si stanno trasformando in patologie.



Di che cosa si tratta?

Anche dove ci sono risorse disponibili per gli investimenti e per l’innovazione, in Italia non riusciamo ad attivarle per antiche “malattie” della nostra struttura politico-istituzionale: c’è sempre qualcosa che le blocca, come una sentenza o un conflitto tra Stato e Regioni su come devono essere utilizzate. L’uso dei fondi europei per il Mezzogiorno è forse l’esempio più chiaro che ci mostra che anche laddove ci sono le risorse occorre fare molto di più.

Il sindacato può fare qualcosa per migliorare la situazione?

Abbiamo cercato di dare il nostro contributo attraverso la riforma della contrattazione, legandola esplicitamente, attraverso il livello aziendale e territoriale, alla crescita della produttività complessiva, della qualità e dell’innovazione. Evidentemente ciò non basta se non vengono risolti anche gli altri problemi di cui sopra.



 

A proposito di contrattazione, venerdì scorso c’è stato un incontro sul tema tra le tre confederazioni sindacali e la Confindustria: si potrà arrivare a un punto di accordo?

 

Il punto di partenza è l’intesa del 2009, che non è stata firmata dalla Cgil, anche se il sindacato di Corso d’Italia ha poi negli anni siglato la stragrande maggioranza dei contratti costruiti con questo sistema. Dato che il ciclo triennale dell’accordo sta giungendo a scadenza, la ragione dell’incontro è stata capire se può esistere un minimo di orientamento comune per quel che riguarda la nuova stagione contrattuale che comincerà a fine anno. Per quel che ci riguarda, come abbiamo sempre detto, le porte sono sempre aperte se si vuol discutere per “fare” qualcosa, ma non se si vuol “non fare”.

 

Un altro punto su cui state discutendo riguarda la rappresentanza. Com’è la situazione su questo fronte?

 

Sarebbe davvero urgente arrivare a definire nuove regole, perché negli ultimi anni sono successe molte cose e l’accordo del 1993 non è sicuramente più in grado di affrontare una realtà divenuta più complessa. Noi abbiamo proposto, e mi pare che su questo si possa arrivare a una convergenza, il tema della certificazione degli iscritti, anche se da solo non è certamente esaustivo. È scritto nell’accordo del 2009, che però la Cgil non ha firmato. Se, come sembra dopo l’incontro di venerdì, su questo punto si potrà andare avanti si otterrebbe un risultato molto importante perché avremmo finalmente una misurazione effettiva del grado di rappresentatività delle organizzazioni.

 

Come funzionerebbe questo sistema?

 

I datori di lavoro dovrebbero trasmettere i dati sulle trattenute agli iscritti al sindacato all’Inps, che a sua volta dovrebbe trasferirli a qualche istituzione di tipo tecnico, come il Cnel, dove le parti potranno disporre settore per settore, area per area, dei dati effettivi sulla rappresentatività di ciascuna organizzazione. In questo modo, ci sarebbe un misuratore condiviso, oggettivo e ufficiale che eviterebbe il sorgere di situazioni, come quelle viste negli ultimi anni, in cui gli accordi vengono sottoscritti dalla maggioranza delle organizzazioni, magari anche dopo un referendum tra i lavoratori, ma dove poi i contratti non vengono firmati da tutti. Questo è un elemento che alla lunga può far saltare le relazioni sindacali. Uno strumento come quello descritto permette, invece, a tutti di attenersi alla principale ed elementare regola della democrazia: quando c’è una maggioranza l’accordo è valido per tutti.

 

Tornando al Rapporto Istat, esso evidenzia ancora una volta la crisi occupazionale dei giovani. Un aiuto per risolverla potrà arrivare anche con la riforma dell’apprendistato. Quanto ci vorrà per portarla in porto?

La legge delega prevede che vi sia un’intesa tra le parti sociali, le Regioni e il Governo entro 60 giorni. Perciò è importante che l’esecutivo attivi al più presto un tavolo per fare quest’accordo, visti anche i tempi stretti. Spero si faccia ogni sforzo per far sì che si possa mettere in campo il più presto possibile uno strumento riformato, semplificato, gestibile e fruibile che, visti propri i dati dell’Istat, permetta che le assunzioni dei giovani si possano fare con un contratto tendenzialmente qualitativo e stabilizzante come l’apprendistato.

 

La Cgil ha però mosso ben undici obiezioni al provvedimento. Cosa ne pensa?

 

La Cgil ha presentato una serie di obiezioni che vengono esposte in maniera eccessivamente pregiudiziale. Non credo che si debbano trovare argomenti per non fare un accordo. Credo che si debbano invece porre problemi veri e cercare di arrivare a un’intesa. Non vedo, però, finora nel testo presentato dal Governo delle difficoltà insormontabili. Vedo semmai la necessità di chiarire bene alcuni punti: noi ne abbiamo individuati quattro.

 

Quali sono?

 

Il primo è la questione della quantità e della qualità della formazione trasversale, che è troppo sottostimata nel progetto del Governo. Crediamo poi anche noi che la durata dell’apprendistato si possa ridurre, cercando eventualmente di incoraggiare la stabilizzazione, magari dando incentivi a chi poi assume definitivamente la persona una volta finito l’apprendistato. Il terzo punto riguarda il rapporto tra Stato e Regioni, dove c’è un problema di tecnica giuridica, dato che alcune regioni hanno già leggi in essere che regolano materie delicate come i profili professionali: va quindi trovato un equilibrio, perché non si può cancellare tutto quello che c’era prima. Infine, occorre scoraggiare l’uso di una serie di contratti molto più “precari” dell’apprendistato che gli impediscono quell’espansione che dovrebbe avere, ma che sono molto più convenienti per le aziende.

 

In che modo si può raggiungere questo obiettivo?

 

Regolando diversamente i tirocini, riportandoli all’interno dei percorsi di alternanza scuola-lavoro e degli ordinamenti scolastici universitari, perché quella era la loro funzione originaria, mentre adesso sono diventati dei modi per assumere una persona solo per qualche mese. Inoltre, regolando meglio il lavoro a progetto, perché ancora oggi, grazie al fatto che si pagano meno contributi, diventa spesso un modo per non utilizzare contratti più onerosi dal punto di vista normativo ed economico. In ogni caso, su queste quattro aree che ho indicato si può lavorare: lo stesso Governo ha manifestato l’intenzione di volerlo fare.

 

La Cgil segnala, però, che, nonostante l’enfasi posta sul carattere a tempo indeterminato dell’apprendistato, si sia rimasti nella condizione di licenziabilità al termine del rapporto.

 

Dal punto di vista giuridico, già oggi il contratto di apprendistato è a tempo indeterminato. Tuttavia, essendo un contratto a causa mista che prevede un periodo di formazione, si è stabilito che alla fine di questo periodo le due parti (lavoratore e datore di lavoro) siano libere di non continuare il rapporto il lavoro. Il governo probabilmente ha messo troppa enfasi, ma l’idea che il contratto di apprendistato possa essere a tempo indeterminato tout court è irrealizzabile. La Cgil, del resto, chiede di lavorare maggiormente sulla stabilizzazione. Su questo siamo d’accordo e abbiamo una proposta.

 

Quale?

Chiediamo che siano dati incentivi ai datori di lavoro per proseguire il rapporto di lavoro. Per esempio, una proroga per un certo periodo della decontribuzione, dato che nel periodo di formazione dell’apprendistato la contribuzione è molto bassa, pari al 10%. In ogni caso, va sottolineato che già ora, nella maggioranza dei casi, chi arriva alla fine della formazione prosegue nel rapporto di lavoro. È molto più facile che il rapporto finisca durante il periodo di formazione.

 

La Cgil è contraria anche al fatto che l’apprendistato di primo livello parta dai 15 anni. Cosa ne pensa?

 

Questa età è stata stabilita dal cosiddetto “collegato lavoro” approvato a novembre e non dipende quindi dalla riforma dell’apprendistato. Non credo che il Parlamento voglia cambiare idea così in fretta sul tema. Penso che la scelta allora sia stata giustamente dettata dall’intento di cercare di recuperare un’area vasta di dispersione scolastica, di circa 100mila persone: una piccola parte di quei famosi giovani “né né” (cioè che non studiano e non lavorano). In questo senso l’apprendistato di primo livello rappresenta un’opportunità.

 

In che modo?

 

Nel testo della legge è previsto che per questo tipo di apprendistato venga effettivamente realizzata una formazione in quantità congrua, definita da una legge dello Stato, intorno alle 450 ore l’anno. Se si concentra l’uso di questo strumento per i 15enni che sono già fuori dai circuiti scolastici, collegandolo magari ai percorsi di formazione professionali triennali che si stanno svolgendo con molto successo in alcune regioni come la Lombardia, il Piemonte e il Veneto, dato l’altissimo grado di occupabilità delle persone formate, si potranno aprire nuove opportunità per molti ragazzi.

 

(Lorenzo Torrisi)

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