Il rapporto Istat presentato il 23 maggio scorso rivela che circa un quarto degli italiani vive a rischio di povertà o di esclusione sociale. Stiamo parlando di 15 milioni di persone, il 24,7% della popolazione, a fronte del 23,1% della media Ue. E nel Sud Italia l’area dell’indigenza supera il 30%. Le difficoltà dell’Italia sono strutturali e di lungo periodo, solo lo stock di ricchezza accumulato nei decenni precedenti ci ha evitato guai peggiori. Tra il 2001 e il 2010 l’Italia ha realizzato infatti “la performance di crescita peggiore d’Europa”, con un tasso di aumento annuo del Pil dello 0,2% a fronte dell’1,3% dell’Ue.



Sono sufficienti questi dati per capire come l’Italia non brilli per sviluppo economico, ma del resto nemmeno il Vecchio Continente. È ormai chiaro agli stessi esperti che le cause della crisi vanno ricercate in un’economia che ha perso i suoi veri valori, che è arrivata a concepire se stessa come mero business, finendo con lo svuotare di anima e progettualità ciò che si chiama “impresa” e rivoltandosi contro se stessa.



La povertà non è una condizione naturale insuperabile, ma una situazione transitoria, che si può sconfiggere. A dimostrarlo sono i successi registrati nelle ultime due decadi dall’Asia, il continente dove si è assistito alla più significativa riduzione di questa grave piaga planetaria. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel mondo la percentuale di persone che vive al di sotto della soglia di povertà di 1,52 dollari al giorno è passata dal 52% del 1981 al 25% del 2005, con una diminuzione consistente in Cina, in India e nel Sud Est Asiatico. Numeri che da soli rendono evidenti le buone possibilità di riuscita degli sforzi intrapresi nella lotta contro l’indigenza cronica.



Il convegno “Impresa familiare, economie di mercato e povertà: la trasformazione dell’Asia”, tenutosi a Roma a metà maggio e organizzato dalla sede romana dell’Acton Institute, think tank statunitense fondato nel 1990 da Padre Robert Sirico, ha fornito l’occasione per esaminare le condizioni della crescita economica delle nazioni del continente asiatico e i suoi legami con la liberalizzazione, lo stato di diritto, la famiglia e le tradizioni culturali.

Molti esperti non esitano a definire il XXI secolo come “il secolo dell’Asia”. La sfida che oggi affrontano i paesi asiatici è quella della transizione da un’economia fortemente basata sull’impresa familiare a un modello economico sempre più incentrato sulla libera impresa e lo sviluppo integrale dell’uomo. I paesi del continente asiatico non solo sono usciti indenni dalla crisi finanziaria che ha piegato le economie occidentali, ma hanno sperimentato un vero e proprio boom legato all’avvio di un processo di riforma del mercato interno.

I primi a modificare il loro assetto per attrarre capitali esteri sono stati Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, seguiti da Cina e India, che hanno intensificato le attività connesse all’export, aprendo il mercato interno, migliorando il loro sistema legale e mantenendo la regolamentazione a un livello ragionevole. Infine, anche la Thailandia, la Malesia e l’Indonesia hanno seguito il loro esempio. Ne è derivato un dirompente sviluppo economico che ha portato con sé una forte riduzione della miseria. Il Pil dei paesi asiatici è cresciuto mediamente ogni anno di circa l’8 %.

Il mondo imprenditoriale occidentale ha già compreso la grande opportunità rappresentata dall’apertura dei nuovi mercati. Quella che non è stata messa a fuoco è la lezione che arriva dal Giappone. “Anziché creare la dipendenza da uno Stato assistenziale, criticato anche nella Dottrina sociale della Chiesa, queste nazioni hanno cercato di realizzare un sistema sociale basato sulla famiglia e orientato verso una rete internazionale di scambi”, ha spiegato Kishore Jayabalan, direttore dell’Istituto Acton di Roma. “I paesi asiatici, forse perché erano più poveri, non avevano le risorse per finanziare il cosiddetto welfare state”, che in Occidente ha prodotto livelli altissimi di debito: un problema che va peggiorando in paesi che invecchiano.

Da tutto questo si intuisce un qualcosa di inequivocabile: un sistema sociale basato sulla famiglia è per se stesso frammentato, ma, al suo interno, l’esperienza del lavoro è vissuta non come luogo del conflitto e della lotta di classe, ma come opportunità per l’uomo, verso se stesso e verso gli altri, innanzitutto per il soggetto più prossimo: la famiglia. I numeri impressionanti che arrivano dai paesi asiatici ci testimoniano il grande impegno e la grande responsabilità che viene dal mondo del lavoro.

Un luogo, il lavoro, che produce ricchezza in proporzioni importanti in ragione del modo in cui vengono percepiti i rapporti sociali. Non solo. Anche i fondamenti dell’uomo, il suo rapporto con il trascendente, incidono nei rapporti sociali e quindi in quelli di lavoro migliorandone la qualità: parallelamente allo sviluppo economico, si registra, infatti, una crescita della pratica religiosa. Secondo l’Istituto Acton, questo è indice di un rapporto più consapevole e salutare con il lavoro, oltre che produttivo.

Il lavoro inteso in questo modo – come opportunità per l’uomo, verso se stesso e verso gli altri – è lo spirito di fondo che anima la riforma in Italia, avviata ormai 15 anni or sono; è ciò che Maurizio Sacconi chiama “antropologia positiva”, visione chiaramente contrapposta a quella classista.

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