Secondo T. Levitt, la catena della globalizzazione si snoda sul seguente percorso: evoluzione della tecnologia; omogeneizzazione della domanda; standardizzazione dei processi produttivi e dei prodotti; passaggio da mercati nazionali a mercati globali; sviluppo di una concorrenza globale.

Questo percorso porta, logicamente, le imprese verso gestioni globali, ovvero a considerare il mondo come un mercato unico per il quale trovare strategie comuni. È vero, inoltre, che oggi noi viviamo in una società che genera un surplus di informazioni, con la presenza di prodotti simili, di persone con background d’istruzione simili, con clienti simili e molte altre uguaglianze.



Quindi, se ciò è vero, diventa sempre più importante, per aumentare il vantaggio competitivo, che un’ impresa sia percepita come differente dai clienti, ma anche dai potenziali talenti che possono scegliere di lavorarvi. Però, se i fattori tangibili sono simili, la differenza va costruita e gestita maggiormente sui valori intangibili.



Nel marketing e nella comunicazione esiste ovviamente una realtà oggettiva, ma secondo quanto appena affermato, esiste anche, ed è fondamentale, una realtà percepita dagli interlocutori di impresa e se questa non è strategicamente gestita può portare a risultati deludenti. Le percezioni rispetto a un’impresa riguardano: il brand, (employer brand per quanto riguarda le risorse umane), le risorse umane, la responsabilità sociale, la sostenibilità.

L’impresa veramente globale è quindi quella che produce, ricerca, assume talenti e comunica a prescindere dal suo Paese d’origine, rinunciando a caratteristiche etnocentriche. I piani di sviluppo tradizionali delle multinazionali (ovvero esportare nel mondo le strategie di successo sperimentate sui mercati nazionali) non sono più attuali. Infatti, è ormai consolidata la raccomandazione che l’impresa debba “pescare” nelle “untapped pockets” del mondo, prodotti, talenti e peculiarità che dalla periferia possano essere esportati al centro (casa madre) e da lì, dopo l’adozione, essere riesportati come valori globali.



Per quanto riguarda le risorse umane, un esempio calzante può essere il Gruppo Lafarge (leader nei materiali da costruzione). È un’impresa francese d’origine, ma che attraverso una strategia di acquisizioni nel mondo è divenuta impresa globale, dove ormai i manager francesi non sono più del 20%. Tom Peters, in una sua presentazione del 2006 intitolata “Different or dead”, afferma: “Hire crazies” e “Hire for attitude and train for skills”. Il manager globale è colui che a prescindere dalle sue origini, che non rinnega, mette tutte le sue qualità intrinseche, estrinseche, creative e innovative al servizio della corporation, sposa e crede nella “corporate culture”, come l’elemento collante e principale cui fare riferimento.

Questa situazione ovviamente comporta una strategia adeguata da parte delle imprese che globali vogliono essere, e che quindi dovranno sempre più rafforzare la loro identità, la loro missione e la loro visione. Esistono brand che sono riusciti in questo e che, come primo risultato, fanno percepire la loro identità come slegata dal Paese d’origine, o se lo aggiungono al loro brand (made in…), ne fanno un uso complementare per accrescere il vantaggio competitivo, non come stile di vita separante, ma come elemento aggiuntivo qualitativamente qualificante.

Anche la consulenza nel recruiting deve essere adeguata alle esigenze dell’impresa globale. Certo, le basi tecniche e professionali costituiscono dei fattori insostituibili, ma l’impresa globale richiede la capacità manageriale di superare o meglio integrare le differenze culturali per metterle a disposizione della cultura globale d’impresa.

Mi permetto di concludere con un esempio reale. Recentemente un partecipante al Master in Marketing Management dell’Università Cattolica mi ha inviato un messaggio comunicandomi che avrebbe avuto un colloquio di selezione per essere inserito in un International Team di una nota multinazionale guidato da un manager pakistano e con i membri del team provenienti da cinque differenti Paesi. La sua preoccupazione non era tecnica, ma era di rapporto: “Non conosco nulla dei loro Paesi di provenienza”.

La mia risposta è stata la seguente: “Questi manager, pur mantenendo le loro caratteristiche, sono manager della “XY”, quindi guardi alla corporate culture e al “Credo” dell’impresa. Se saranno stati costruiti e comunicati correttamente, e se l’attitudine verso questi fattori è stata la priorità nel recruiting, il problema dei Paesi di origine non esiste”.

Abbiamo un riscontro quotidiano riguardo all’accesso rapido alle informazioni e alle convergenze del mondo sul alcuni valori comuni. Impresa globale significa quindi, e soprattutto, persona globale.

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