L’essiccazione progressiva di qualunque cultura di sinistra, degna di questo nome – e vedremo in che senso – emerge con chiarezza dallo choccante sondaggio realizzato dalla Swg per la recente Conferenza del lavoro organizzata a Genova dal Pd. Da questa “Indagine sulla condizione operaia in Italia” emerge un quadro desolante. Il quadro di una classe economica che non è più classe sociale, perchè non avverte più alcuna identità sociale connotabile in termini nitidi. Che non si sente più rappresentata da nessuno schieramento politico, tanto che per il 42% si professa sostanzialmente apolitica. Prevale ancora (31%) lo schieramento a sinistra su quello a destra (18%) ed è inesistente il centro (3%), ma quel che incombe è l’area dei non schierati. Sono abbastanza contenti del loro lavori abbastanza contenti della gestione della loro impresa, vogliono soltanto guadagnare di più.



Ebbene, il “sistema” ce l’ha fatta: abbiamo importato il modello di ieri e di oggi dell’operaio americano, quello che piace tanto a Marchionne, che gli dice grazie, anziché contestargli e contendergli le decisioni organizzative.

E’ un bene? E’ un male? Com’è difficile dirlo. Una cosa è chiara: è “antisindacale”. Una classe operaia così, tende a infilare individualmente la porta dell’ufficio del personale e negoziare aumenti di stipendio individuali, altro che sfilare in corteo per rivendicazioni collettive. E un’altra cosa è chiara: nessuno ha coltivato nella mentalità di queste persone il gusto, o forse la pretesa, di entrare nel merito di come l’azienda gestisce le sue risorse umane. Diversamente, il tasso di adesione alle scelte dall’alto non potrebbe che essere più basso.



Sono i figli del “dopo-Muro” quelli cresciuti nell’epoca del crollo del mito comunista, dell’alternativa di sistema, quella che prometteva ancora la rivoluzione proletaria e la dittatura del proletariato. Tramontati quei miti, cosa resta? Solo quel che decide il padrone. Quel che decide “Sciur padrun” è ben fatto. Cosa sia la “redistribuzione del reddito”, quanta discrezionalità possa esserci nel decidere come allocare la remunerazione dei due fattori economici che determinano produzione e redditività – ovvero il capitale e il lavoro -, questo “campione rappresentativo” descritto a Genova dalla Swg… proprio non lo sa.



Non sa, ad esempio, che la “crescita del valore” delle società quotate predicata dal verbo degli analisti finanziati di stampo anglosassone premia i tagli all’organico, e non l’espansione occupazionale. Non sa, ad esempio, quanto siano penalizzate dai mercati finanziari le imprese che, nonostante la crisi, preferiscono non indebitarsi e tenersi dei soldi in cassa per fronteggiare eventuali crisi future senza tagliare brutalmente i costi (primo fra tutti quello del personale). Non sa, ad esempio, che i costi risparmiati dalla Thyssen sugli estintori dello stabilimento di Torino e dalla British Petroleum sulle strutture di sicurezza nella piattaforma inquinante del Golfo del Messico, fino a un minuto prima della sciagura, erano titoli di merito a vantaggio dei manager che avevano deciso quei risparmi.

Questo “non sapere” della nuova classe operaia sarà frutto del crollo dei miti, figlio della tv commerciale, effetto dell’omologazione di Internet, sia come sia: è foriero di qualunquismo, passività e delusione. Non si può registrare alcun progresso di consapevolezza sulla strada della verità, quella per cui il lavoro è fatto per l’uomo e non l’uomo per il lavoro, quella per cui il ripudio della lotta di classe violenta non significa accettazione passiva della legge del più forte, quella per cui il capitale investito merita remunerazione purchè sia investito sul serio, però, e non sottratto all’”equa mercede” che già Leone XIII indicò nella sua Rerum novarum, mirabilmente rinnovata da Papa Benedetto XVI nella sua Caritas in veritate.

Ecco, l’impressione è che sia indispensabile risvegliare nelle coscienze di questa classe operaia culturalmente smarrita il senso dei diritti, un senso ecumenico dei diritti, globalizzato, che consenta di non odiare i concorrenti cinesi che lavorano 70 ore alla settimana facendo (da vittime inconsapevoli) social-dumping contro i loro colleghi occidentali; senza per questo cadere nell’errore di pensare di poterli emulare, i simili-schiavi cinesi, come tanti padroni occidentali pretenderebbero che le nostre tute blu facessero.

Insomma, e in parole povere: si sta passando da un eccesso all’altro. Dal “no su tutto” del pansindacalismo parassitario degli anni Settanta; al “sì su tutto”, che questi ragazzi sono portati a dire, e che il marchionnismo auspica. Esiste una terza via: la collaborazione intelligente, l’aziendalismo consapevole, la laboriosità umanistica. Ma come ogni “terza via” è la più giusta e insieme la più difficile da capire e praticare.

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