Domani potrebbe essere il giorno decisivo per la trattativa tra Confindustria e sindacati sulla riforma dei contratti. Dopo l’incontro di venerdì scorso, infatti, le parti sembrano più vicine a un accordo. Difficile azzardare un pronostico sull’esito. Da una parte c’è infatti la necessità di dare più spazio alla contrattazione territoriale e aziendale, come emerso da un anno a questa parte con il caso Fiat. Dall’altra, per le Pmi, che costituiscono la stragrande maggioranza delle imprese italiane, il contratto nazionale uniforme può risultare molto più pratico. Meglio allora una contrattazione nazionale più “snella” o una aziendale “allargata”? «Meglio ampliare con qualche “paletto” quella aziendale», ci dice Pietro Ichino, giuslavorista e Senatore del Partito democratico.
Perché?
Oggi l’opinione che va per la maggiore è che si debba andare in direzione di uno “snellimento” del contratto nazionale, pur conservandone l’inderogabilità, per lasciare più spazio alla contrattazione aziendale. Ma se “snellimento” significa riduzione del contenuto del contratto, in tutta la vasta area dove la contrattazione aziendale ancora non riesce ad arrivare – parlo di due terzi della forza-lavoro italiana – questo necessariamente riduce la protezione dei lavoratori.
Qual è dunque, secondo lei, la soluzione migliore?
Che il contratto collettivo nazionale conservi la sua capacità di regolare compiutamente il lavoro nel suo settore, coprendo tutta quella vasta area in cui la contrattazione aziendale non arriva. Ma questo implica che la contrattazione aziendale stessa possa più largamente sostituire la disciplina nazionale, dove il piano industriale innovativo lo richiede. In altre parole, il contratto collettivo nazionale deve svolgere la funzione di disciplina di default: quella che si applica in assenza di una disciplina contrattata da chi ne ha il potere a un livello più vicino al luogo di lavoro.
Questa soluzione può davvero avvicinare l’Italia al modello tedesco?
L’alternativa tra contratto aziendale e contratto nazionale costituisce, certo, una delle caratteristiche del modello tedesco attuale di relazioni industriali. Ma esso è composto anche da molti altri elementi: a cominciare dalle forme di partecipazione dei lavoratori nell’impresa.
Un altro appuntamento importante è quello del 16 luglio, quando Fiat e Fiom si ritroveranno in aula a Torino per la sentenza sulle newco di Pomigliano e Mirafiori. Come lei ha già evidenziato, i contratti resteranno validi, quale che sia la decisione. Questa avrà dunque solo valore “simbolico” oppure potrà determinare effetti importanti e tangibili?
I giudici sono chiamati a decidere se ci siano stati dei comportamenti antisindacali da parte della Fiat o se nei contratti stipulati ci siano elementi di antisindacalità, che potrebbero esserne espunti senza che ne consegua una invalidazione dei contratti stessi. Inoltre, sono chiamati a decidere se nell’avvio dell’attività delle newco di Pomigliano e Mirafiori sia ravvisabile un trasferimento d’azienda oppure la nascita di un’azienda nuova: anche questo non avrà un’incidenza rilevante sul trattamento dei lavoratori, che resterà quello indicato dai contratti, ma potrà averla sulle procedure sindacali applicabili.
La Fiom è impegnata anche in una serie di ricorsi contro l’applicazione dell’accordo separato del Ccnl Metalmeccanici del 2009 e le sentenze giunte finora non sembrano indicare una direzione unica. Non c’è il rischio che affidare il tema delle relazioni sindacali ai tribunali possa produrre dei danni?
Certo che c’è questo rischio.
Allora come evitarlo?
Uscendo dalla fase ormai ultrasessantennale del “diritto sindacale transitorio”, cioè dalla fase della transizione dall’ordinamento corporativo – abrogato nel 1944 – al nuovo ordinamento costituzionale, che non è mai stato attuato. La legge che regola questa materia, attuando o modificando l’articolo 39 della Costituzione, non l’abbiamo mai emanata. E il risultato è che non vi è alcuna certezza sull’efficacia dei contratti, sul chi contratta per chi. Gli unici che ne traggono beneficio sono gli avvocati.
Facciamo ora un salto indietro nel tempo: a inizio aprile, in una lettera a Il Corriere della Sera, insieme a Luca di Montezemolo e a Nicola Rossi, lei ha proposto una riforma del diritto del lavoro che porti ad avere più contratti a tempo indeterminato. Per rendere più facile l’entrata nel mercato bisognerà anche eliminarne le rigidità in uscita?
Il precariato dei lavoratori di serie B e C è l’altra faccia dell’iperprotezione dei lavoratori di serie A. Se si vuole voltar pagina rispetto al regime di apartheid oggi in vigore ai danni dei primi, dobbiamo riscrivere un diritto del lavoro capace di applicarsi davvero a tutti i nuovi rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti.
Bisognerà riscrivere l’articolo 18?
Occorre lasciarlo in vita per i licenziamenti disciplinari e per quelli discriminatori. Ma per i licenziamenti dettati da motivi economici od organizzativi occorre una tecnica di protezione completamente diversa, che coniughi la flessibilità di cui le strutture produttive hanno bisogno con la massima sicurezza per i lavoratori nel mercato del lavoro.
In questo modo non si cancella quello che sembra un “baluardo” per i sindacati?
È proprio il contrario: la riforma che propongo raddoppia l’area di applicazione dell’articolo 18, che si estenderà a 19 milioni di lavoratori invece che soltanto a 9 milioni come oggi. Però, la riforma ne limiterà l’applicazione al licenziamento disciplinare e alla materia delle discriminazioni – quella dove è davvero in gioco la libertà morale e la dignità del lavoratore -, sostituendolo invece, nel campo dei licenziamenti economici, con una disciplina più adatta, ispirata all’esperienza dei Paesi del nord-Europa; quelli dove i lavoratori sono più protetti che in qualsiasi altra parte del mondo.
È vero che il “contratto unico” riduce la flessibilità, pur necessaria, nel mercato del lavoro?
La mia proposta di riforma non porta a un “contratto unico”, ma a un “diritto unico” del lavoro, più flessibile per le imprese e più sicuro per i lavoratori.
Intanto, gli ultimi dati internazionali sembrano segnalare una stabilizzazione del tasso di disoccupazione e un suo lento, ma graduale, calo. I livelli restano però superiori al 2007/2008, quando è cominciata la crisi internazionale. Come si può recuperare ancora terreno?
Visto che di investimenti dallo Stato per qualche anno non ce ne possiamo aspettare, l’unica leva su cui possiamo agire è costituita dall’apertura del nostro Paese agli investimenti stranieri. Oggi, in termini di percentuale degli investimenti esteri sul Pil, siamo il Paese europeo più chiuso, dopo la Grecia. Se riuscissimo ad allinearci con un Paese mediano, come l’Olanda, potremmo attivare un maggior flusso di investimenti pari a quasi 60 miliardi all’anno: 29 volte l’investimento che ci propone Marchionne.
(Lorenzo Torrisi)