La crisi che tuttora stiamo attraversando costituisce un punto di svolta che si può, in modo non eccessivo, definire “epocale”. Da quel 12 settembre 2008, con il fallimento della Lehman Brothers, mutano un insieme di equilibri: da quelli geo-economici internazionali, all’emergere di nuovi consumatori nel mondo, fino ai sistemi produttivi e alle relazioni industriali nei singoli paesi.



È una discontinuità che si manifesta improvvisa e inattesa, sebbene i suoi prodromi fossero intuibili. Come tutti cambiamenti, però, anche questo non è neutro agli occhi delle persone. Può generare timori, paure, chiusure. Ma anche dischiudere grandi opportunità, possibilità di indirizzare diversamente un modello di sviluppo.



Per cogliere le chance che si aprono, servono però nuove lenti con cui guardare la realtà attuale e quella in prospettiva, dotarsi di criteri di analisi diversi dai precedenti. O, talvolta, più semplicemente, provare a osservare i fenomeni con una maggiore oggettività, mettendo da parte le convinzioni preconcette e inserendoli all’interno di un contesto sociale ed economico che muta a una velocità inusitata.

L’Italia, all’interno della crisi e in questa fase in particolare, sembra ancora annaspare, incapace di prefigurare una progettualità complessiva che indichi i percorsi da intraprendere per riprendere una crescita. L’incertezza sembra essere l’unica certezza di cui dispone. Eppure, proprio questo è il momento opportuno e decisivo per riscrivere un nuovo “orizzonte condiviso per lo sviluppo”, che contenga sicuramente politiche e misure concrete utili a sospingere il sistema produttivo verso un livello di competitività più elevato. Ma che si deve fondare su un aspetto culturale strategico e che coinvolge più direttamente il mondo del Lavoro (con la L maiuscola, quello degli imprenditori e dei lavoratori): stilare un “new deal”, un nuovo accordo fra i produttori all’insegna di una maggiore condivisione degli obiettivi.



Si tratta di un libro dei sogni? Riteniamo di no, che ciò sia un percorso plausibile. A solo titolo indicativo, basti qui rilevare come a questo proposito il tema della collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro, registri ampi spazi di convergenza tanto dal punto di vista degli imprenditori, quanto da quello dei lavoratori, come dimostra il confronto fra diverse ricerche [].

[1] D. Marini (a cura di), L’Italia delle imprese. Rapporto 2005, Quaderni FNE, Collana ricerche n. 28, Venezia, Fondazione Nord Est, 2005; id. (a cura di), L’Italia delle imprese. Rapporto 2008, Quaderni FNE, Collana ricerche n. 46, Treviso, Fondazione Nord Est, 2008.

Se così fosse, ciò significherebbe per imprenditori e lavoratori mettere a fuoco e partecipare di alcuni valori di fondo, riconoscere maggiormente le dimensioni della “complicità” e della “reciprocità”, quali la valorizzazione del merito e la promozione di eque opportunità, il valore sociale dell’intraprendere e il rispetto della legalità, la compartecipazione all’innovazione e ai rischi del fare impresa, la considerazione delle professionalità e della promozione del capitale umano, e così via. Senza per questo disconoscere l’esistenza di una distinzione dei ruoli e delle responsabilità, nel riconoscimento e nel rispetto dei reciproci interessi. Insomma, affermare i valori della co-responsabilità e dell’imprenditività nel Lavoro.

In altri termini, muta radicalmente il quadro della competizione internazionale e gli schemi tradizionali dei rapporti fra capitale e lavoro rischiano l’inefficacia (posto che per la particolarità del sistema produttivo italiano, caratterizzato da un sistema imprenditoriale diffuso e di Pmi, questi abbiano mai rappresentato un criterio di analisi estendibile in modo universale). Nuove regole e un nuovo progetto devono essere scritti, pena un lento, ma inesorabile declino economico di fronte ai processi di internazionalizzazione produttiva.

La ricerca realizzata sui lavoratori in Italia, di cui riportiamo una sintesi dei risultati [], ha cercato di sondare, se e in che misura, la prospettiva di prefigurare una nuova “reciprocità” trovasse all’interno del mondo del lavoro un terreno disponibile ad accoglierla. Com’era facile attendere, emerge un’immagine articolata, sicuramente dinamica e – per molti versi – diversa da un immaginario legato ancora al lavoratore della fabbrica di stampo fordista.

Va sottolineato, inoltre, che la ricerca – realizzata mediante un sondaggio su un campione di lavoratori dipendenti dei diversi settori economici in Italia [] – è avvenuta in una fase particolarmente critica per l’occupazione come quella attuale. Di più, fra gli interpellati si sono considerati non solo i lavoratori dipendenti classicamente intesi (quelli con un contratto di lavoro a tempo indeterminato), ma anche quanti hanno collaborazioni determinate, collaboratori a progetto e così via. Inoltre, si è cercato di individuare, attraverso opportune domande filtro, anche quella parte di “impropri” lavoratori autonomi, ovvero quanti – pur essendo titolari di una partita Iva, ma avendo non più di tre committenti – di fatto siano assimilabili a un lavoratore dipendente.

 

[2] Gli esiti completi della ricerca, promossa dalla Piccola Industria di Confindustria e coordinata dal Centro Studi di Confidustria, sono contenuti in D. Marini, Lavoratori imprenditivi: una nuova reciprocità tra lavoro e impresa, in G. Nardozzi e L. Paolazzi (a cura di), Costruire il futuro. PMI protagoniste: sfide e strategie, Roma, SIPI, 2011.

[3] La popolazione oggetto di campionamento è costituita dalla popolazione residente in Italia con età maggiore o uguale a 15 anni, in posizione lavorativa dipendente o assimilabile. Il campione ammonta a 1.025 unità. Gli intervistati sono stati estratti fra gli elenchi telefonici di telefonia fissa. Il campione è stato ripartito per regione, genere, età. Al fine di uniformare il campione ai dati Istat (2009) sull’universo di riferimento, le eventuali distorsioni sono state bilanciate in fase di elaborazione post-rilevazione attraverso procedure di ponderazione che hanno tenuto in considerazione le variabili di stratificazione campionaria sopra citate. Le interviste sono state realizzate telefonicamente con il sistema C.A.T.I. (Computer Assisted Telephone Interviewing), nel periodo 17-25 gennaio 2011, dalla società di rilevazione Demetra, per conto di Demos&Pi. La ricerca è stata promossa dalla Piccola Industria di Confindustria. Daniele Marini ha impostato e diretto la ricerca.

I temi sondati sono stati: le condizioni di lavoro oggettive e quelle percepite, la propensione alla partecipazione, all’innovazione e al rischio d’impresa, la contrattazione e il ruolo del sindacato, la soddisfazione per il lavoro svolto, il prestigio assegnato al lavoro e alle diverse occupazioni.

Non è agevole delineare un profilo omogeneo dei lavoratori, ma gli esiti sono a dimostrare quanto poco si conoscano gli orientamenti di una quota largamente maggioritaria fra gli occupati. Soprattutto, di un livello di “reciprocità” degli interessi fra lavoratore e impresa di assoluto rilievo. Al punto che, per la maggioranza dei casi, si potrebbe sostenere che siamo di fronte a “lavoratori imprenditivi”, nel senso di attori disponibili a investire sul proprio futuro professionale, a un diverso rapporto con l’impresa fatto di maggiore coinvolgimento e partecipazione, in non pochi casi anche di compartecipare al rischio legato all’innovazione []. Come a dire che la scrittura di un “new deal” fra i produttori può trovare già oggi un retroterra culturale più favorevole di quanto non si potesse ipotizzare.

In due successivi articoli (il primo verrà pubblicato domani) vogliamo quindi offrire alcuni spunti riflessivi in forma di sintesi, così come emergono dai risultati della ricerca realizzata.

 

(1 – continua)

 

[4] Sul tema della necessità di promuovere una “società imprenditoriale” rinvio alle riflessioni di E. Rullani, Verso una società imprenditoriale consapevole, in G. Nardozzi e L. Paolazzi (a cura di), Costruire futuro, op. cit.

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