Il dovere di dare a ciascuno il suo è alla base di ogni giusto ordinamento sociale e, quindi, di una pacifica e operosa convivenza professionale. In particolare, nei rapporti interpersonali è importante il dovere di dire la verità, ovvero essere sinceri e trasparenti, per la creazione di relazioni autentiche e durevoli nel tempo.



La sincerità va oltre il semplice divieto di dire false testimonianze, dal momento che tutte le manifestazioni esteriori dei nostri sentimenti e pensieri attraverso parole, gesti, azioni, possono riguardare tale comportamento. Quale forma di convivenza sarebbe infatti pensabile senza la fiducia reciproca che nasce dal dirsi l’un l’altro la verità?



Aristotele nel libro V del’’Etica Nicomachea, chiama giustizia il díkaion, la dikaiosyne – che somiglia molto a ciò che noi chiamiamo oggi “diritto”. Secondo Aristotele, è verace chi, nelle circostanze dovute, dice di se stesso quello che è, né di più, né di meno, mostrandosi nelle proprie parole e nei propri atti come autenticamente è.

La trasparenza è molto importante nel determinare la qualità delle relazioni e quindi il valore del capitale sociale, e il maggior attentato alla convivenza è proprio la menzogna con le sue molte varianti e sfaccettature, reticenza, intrigo, mormorazione.



In particolare, la menzogna con la quale si vuole intenzionalmente danneggiare il prossimo assume una rilevante gravità; non è però priva di ripercussioni dannose la bugia di chi ha contratto tale abitudine forse per deformazione professionale, fino a godere della menzogna e a rifiutarsi di smentire coloro che lo tacciano di bugiardo.

Capostipite di questi mentitori “sinceri” può essere ritenuto Machiavelli, che confida a Guicciardini: “Da un tempo in qua io non dico mai quello che io credo, né credo mai quello che io dico, e se pure mi vien detto qualche volta il vero, io lo nascondo fra tante bugie, che è difficile a ritrovarlo”. Viene in mente il celebre personaggio di Dostoevskjj che confessa: “Ho mentito per tutta la vita. Anche quando dicevo la verità. Io forse mentisco anche ora. Il peggio è che credo a me stesso quando mentisco. La cosa più difficile nella vita è vivere senza mentire, e senza credere nella propria menzogna”.

Alla sincerità si può mancare, dunque, sia con le parole che con la propria condotta, per eccesso come per difetto. Nel primo caso abbiamo a che fare con la millanteria di simula, esagerando cose o doti che in realtà non si possiedono o si detengono in misura minore di quanto ce ne si vanti (Aristotele); e ciò non sempre per arroganza, ma spesso per stupidità, per interesse o per sollecitare contese. Si manca invece per difetto quando si nega di avere qualità e talenti che si posseggono, oppure quando ci si attribuisce azioni deplorevoli e limitazioni personali inesistenti nella realtà.

In questo senso, la fedeltà alla parola data è la prima regola del gioco da osservare e mantenere gli impegni e le promesse costituisce un’esigenza etica universale e irrinunciabile che ha la sua origine nel diritto naturale.

Dare agli altri ciò che è loro dovuto e, in concreto, eseguire con la conveniente esattezza quanto è stato promesso, è proprio della virtù della fedeltà. Essere fedele è una particolare forma di essere giusto, conforme a ciò che la verità insegna, e di conseguenza buon cittadino e corretto professionista, socio leale, amico sincero. Nelle Epistulae ad familiares Cicerone utilizza il termine fidelis come sinonimo di amico e di confidente, a prescindere dall’esistenza o meno di una esplicita promessa.

La fedeltà professionale non si esaurisce quindi nell’adempimento burocratico di determinate prestazioni fissate dagli ordini professionali, bensì presuppone una grande vitalità personale intrisa di fiducia, pazienza e spirito di servizio. Davanti a nuove situazioni personali o professionali non ci si rassegna a essere fedeli: si è tali perché così si vuole per stabilire delle autentiche relazioni di fiducia.