Le soluzioni della manovra finanziaria in materia di previdenza hanno stabilito che, a far data dal 2020, l’età di pensionamento delle lavoratrici del settore privato aumenterà, in modo lento e graduale, per eguagliare quella degli uomini nel 2032.
Il provvedimento risponde a un principio di equità, ma arriva con molto ritardo rispetto a quanto già stabilito per le dipendenti del pubblico impiego, parificate agli uomini in base a una disposizione europea che ha giudicato discriminante, nei confronti degli uomini, la più bassa età di pensionamento delle lavoratrici.
La questione ha avuto inizio nel 2004, quando la Commissione europea alla giustizia e ai diritti civili ha contestato all’Italia il regime pensionistico dei dipendenti pubblici gestito dall’Inpdap per la disparità dell’età pensionabile tra uomo (65 anni) e donna (60). Il 13 novembre del 2008 si è pronunciata anche la Corte europea che ha dato ragione alla Commissione sopra citata, sentenziando che la diversa età di accesso alla pensione nel pubblico impiego rappresenta una discriminazione inaccettabile, perché contraria all’articolo 141 del Trattato Ue che stabilisce il principio di uguaglianza retributiva tra uomo e donna.
L’Italia, però, non si è allineata alla sentenza se non dopo una lettera di messa in mora inviata da Bruxelles nello scorso giugno 2009. Il piano di rientro graduale, che sembrava accettabile alla precedente Commissione, non è stato ritenuto tale da Viviane Reding, attuale Commissaria alla giustizia e ai diritti civili: prevedere 8 anni per raggiungere l’uguaglianza di trattamento nel 2018, significa di fatto, secondo Viviane Reding, continuare a mantenere in essere una discriminazione illegale.
L’Italia, a quel punto, non ha avuto scelta ed è andata nella direzione di un innalzamento dell’età pensionabile (65 anni) a partire dal gennaio 2012, accompagnato da una clausola di salvaguardia che consente a tutte le lavoratrici che hanno maturato i requisiti per la pensione al 31 dicembre 2011 di andarci anche dopo l’entrata in vigore dello “scalone”. Del resto, la clausola in questione è contenuta nella Legge Brunetta, che ha innalzato gradualmente l’età pensionabile delle donne a 65 anni nel 2018.
Era rimasto in sospeso il problema giuridico del trattamento apparentemente dispari tra dipendenti pubblici e privati che, nella questione che ci interessa, è sì fondato sulla natura retributiva dei contributi pensionistici e delle prestazioni conseguenti, e quindi dell’applicazione dell’art. 141 del Trattato, ma che nell’evoluzione interpretativa della Corte di Giustizia, a partire dal caso Barber, ha dato luogo a diversi problemi di adeguamento anche in relazione all’esclusione dalla direttiva n. 2006/54, che accorpa la disciplina sulla parità tra lavoratori e lavoratrici, della direttiva n. 79/7 sulla parità dei regimi pubblici obbligatori di sicurezza sociale.
Su questi punti la Commissaria spiega che nel pubblico impiego lo Stato agisce da “imprenditore” e, quindi, non è ammissibile un suo comportamento discriminatorio. Sulla legislazione nazionale è libero invece di fare quello che ritiene più giusto. Anche la Corte europea ha insistito sul fatto che è una legge ad hoc a reggere il pubblico impiego che, quindi, ricade sotto l’articolo 141 del Trattato. Per il regime generale delle pensioni vale invece la direttiva n. 7 del 1979, che dà agli Stati nazionali più flessibilità nell’applicazione.
Si è così arrivati oggi all’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato, anche se la gradualità dell’intervento non consente il recupero di risorse utilizzabili per la crescita. Si pensi per esempio, per restare in tema di pari opportunità, al capitolo importante e critico dell’occupazione femminile e dei fattori che la possono favorire.