Già nel 1997, anno della riforma Treu, era chiaro che la cinquantennale esperienza di applicazione della legge n. 264 del 1949 (quella che obbligava la richiesta numerica e non nominativa del lavoratore gestita dallo Stato) avesse portato ben pochi frutti.

Si erano diffusi negli anni meccanismi decisamente poco virtuosi di clientelismo politico, reclutamento informale e dominio delle reti amicali. Consuetudini non sufficientemente ostacolate dall’intervento successivo del 1960 (legge 1369), che sancì il divieto di intermediazione e interposizione nei rapporti di lavoro, senza però riuscire a scoraggiare una vigorosa e costante destrutturazione dei rapporti di lavoro derivante dal moderno processo di deindustrializzazione e dal recente affermarsi di tipologie di lavoro difficilmente catalogabili con la tradizionale classificazione dipendente/autonomo.



Inoltre, la rigidità della disciplina legale allora vigente non permise di riconoscere tempestivamente i fenomeni patologici che andavano diffondendosi, né ha consentito di comprendere da subito gli inevitabili processi di esternalizzazione del lavoro che da lì a pochi anni si sarebbero definitivamente affermati.

Per smuovere la nostra legislazione ci fu bisogno di un vigoroso aiutino comunitario. Nel 1997 la celebre sentenza Job Centre della Corte di Giustizia europea si espresse sulla conformità delle citate leggi 264 e 1369 ai principi della libera concorrenza fra le imprese, ai sensi degli articoli 82 e 86 del Trattato della Comunità europea. Si aprì allora la strada per il superamento del monopolio statale del collocamento e, quindi, per la concorrenza fra uffici pubblici e operatori privati.



Si fecero carico di questa modernizzazione la legge n. 196 del 1997 (appunto la legge Treu) e il d.lgs. n. 469 dello stesso anno, che legalizzarono le cosiddette agenzie di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo e le agenzie private di collocamento. La legge Biagi del 2003 continuò l’opera iniziata definendo le modalità di autorizzazione e di accreditamento delle agenzie per il lavoro, con riferimento alle funzioni di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione, supporto alla ricollocazione professionale.

Il settore del collocamento privato è quindi ancora un ambito giovane nel nostro mercato del lavoro, non ancora maggiorenne, ma prossimo alla maturità dopo l’intervento contenuto all’articolo 29 del decreto legge 98 del 2011 (la recente manovra finanziaria).



I dati ci dicono che nel nostro Paese non c’è rischio di disordine nel rapporto tra domanda e offerta di lavoro: mentre nei principali Stati europei la quota complessiva di collocamento intermediato dai servizi pubblici e privati oscilla tra il 10% e il 30% del totale degli avviamenti complessivi, in Italia la media nazionale non supera il 4-5%.

Non è peregrino pensare che alcune delle principali criticità dell’occupazione italiana siano peggiorate proprio per la scarsa penetrazione di moderni servizi di intermediazione domanda/offerta. Ad esempio, le difficoltà di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro sono, almeno in parte, determinate dalla pochezza dei canali di informazione e dalle inefficienze del sistema pubblico di intermediazione. Non è un caso che circa il 55% dei giovani trovi la prima occupazione attraverso le segnalazioni di parenti e amici.

I canali formali non professionali (richiesta diretta a un datore di lavoro, inserzioni sulla stampa e utilizzo del web), occupano rispettivamente il secondo (16%) e il terzo posto (6,8%), mentre la percentuale di ingressi favorita dall’intermediazione dei Centri per l’impiego e dalle Agenzie per il lavoro appare miseramente limitata a poco meno del 5% (dati Istat).

In ottica comparata è basso anche il numero di soggetti privati che operano sul mercato: sono solo 88 le società di somministrazione e 34 quelle di intermediazione. Più numerose, a motivo della relativa semplicità nell’ottenere l’accreditamento, le agenzie di ricerca e selezione (di poco superiori a 700, ma si tratta di un mondo estremamente complesso da fotografare).

Alla luce di queste considerazioni sono facilmente comprensibili le ragioni che hanno indotto il legislatore a riscrivere l’articolo 6 della legge Biagi con la recente manovra finanziaria. I disoccupati, in particolare giovani, sono tanti. Numerose sono le posizioni di difficile reperimento cercate dalle aziende. È crescente il ritardo occupazione del Mezzogiorno. Evidentemente sono ancora troppe le restrizioni che rendono poco fluido il mercato del lavoro (si pensi alle sanzioni, anche penali, che spettano a chi intermedia senza autorizzazione). È un esempio classico di tentativo di cura che finisce per peggiorare lo stato di salute del malato. Fuori metafora: la paura del cosiddetto caporalato ha dimezzato i possibili canali di incontro tra domanda e offerta di lavoro, svantaggiando così proprio il disoccupato che si voleva proteggere.

Per questo il recente intervento legislativo vuole attivare un numero il più possibile esteso di soggetti specializzati che possano rimuovere gli ostacoli che frenano le opportunità di lavoro. L’articolo 29 della manovra prevede l’autorizzazione ope legis all’intermediazione per scuole, università (solo a condizione della pubblicazione gratuita dei cv dei propri studenti), enti bilaterali, associazioni datoriali e sindacali, comuni, patronati, siti internet senza finalità di lucro.

Certamente non si tratta di novità che stravolgeranno il mercato del lavoro italiano, ma sono motivi di maggiore speranza perché chi sta cercando lavoro possa incontrare chi sta cercando lavoratori con le proprie competenze.