Il giorno prima dell’inizio del Meeting 2011, Giorgio Vittadini, lanciando la manifestazione, ha detto al Corriere della Sera che l’Italia “rischia di diventare un Paese per vecchi”, che non pensa al vero “motore dello sviluppo”, che sono i giovani, da “educare, non da escludere”. Come è avvenuto nella crisi, che è stata fatta pagare proprio a loro.
Che sia stato, più di altre volte (nei contenuti, non nei protagonisti: i volontari innanzitutto, giovanissimi e vera anima della fiera riminese), il Meeting dei giovani è evidente ripensando ad alcuni degli incontri principali che hanno caratterizzato questa edizione. Il Presidente Napolitano ha parlato del “motore del desiderio” dei giovani in risposta alla crisi che stiamo vivendo e ha loro rivolto un accorato appello. Il Ministro Sacconi non ha avuto timore di presentare un ragionamento politicamente scorretto circa la necessità di stravolgere le convinzioni educative che, soprattutto a partire dai disastrosi anni Settanta, hanno determinato una separazione tra formazione e lavoro e hanno incoraggiato il disallineamento professionale che ora è evidente a tutti. John Elkann, partendo dalla sua esperienza personale, ha suggerito che i giovani guardino alla realtà senza nascondersi nulla, chiarendo a se stessi cosa vogliano fare. “Sono importanti lo studio dell’inglese e gli stage all’estero, ma la cosa più importante è dire a se stessi la verità e lasciarsi guidare dalle opportunità della vita”. Giuseppe Orsi, Amministratore Delegato di AgustaWestland, sulla stessa linea d’onda, ha addirittura affermato che non è eticamente accettabile non lavorare in attesa del lavoro giusto. Altro che inattività giovanile. Da ultimo, il Meeting ha dedicato un intero incontro all’approfondimento di alcune soluzione legislative che possono facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Ministero del lavoro, Regione Lombardia, sindacato, imprese e scuola hanno convenuto sull’importanza del contratto di apprendistato, recentemente riformato.
E’ stato quindi un Meeting attento al tema “lavoro”. In particolar modo interessato a non scansare uno dei problemi più ricorrenti nel dibattito nazionale: il lavoro dei giovani, il rapporto tra formazione e lavoro. Tutti gli osservatori, di qualsiasi colore, concordano sull’esistenza di un’emergenza giovani. Gli ultimi dati Istat ci dicono che il tasso di disoccupazione giovanile è del 27,8%. Confartigianato ha recentemente comunicato una stima di 1.138.000 giovani fino a 35 anni senza lavoro. Non ci sono solo i (tanti) disoccupati, ma anche i cosiddetti Neet, calcolati dal Cnel nel 18,6% dei giovani tra 18 e 24 anni e nel 28,8% per la fascia 25-30. Si tratta, facendo un semplice calcolo demografico, di pressappoco 2.100.000 giovani che non studiano e non lavorano. Volendo, si potrebbero anche citare i tanti ragazzi che lavorano, ma con contratti destinati a non essere rinnovati o estremamente deboli di fronte alle oscillazioni di mercato. Si tenga presente che il 5,4% dei ragazzi in età da obbligo scolastico è dispersa. A questa cifra, infine, vanno sommati i tanti che fuoriescono dal sistema formativo appena compiuta l’età da lavoro, senza conseguire alcuna qualifica: il tasso di abbandono scolastico italiano è del 19,7%.



L’ampiezza del problema è chiarissima. Le soluzioni un po’ meno. Eppure non si conta il numero di convegni che in questi anni hanno provato ad aggregare politici, sindacalisti, imprese ed esperti per discutere di possibili vie d’uscita. Con risultati solitamente deludenti, spesso caratterizzati da quell’astrattezza che si ha nell’affrontare temi che non interessano direttamente (si pensi, per esempio, alle curiose, quanto inconcludenti, proposte di “contratto d’avvenire” o “contratto unico” che hanno interessato per mesi il dibattito politico).
Il Meeting è invece riuscito a risparmiare ai tanti presenti le solite elucubrazioni teoriche, permettendo ai diversi (per età, credo politico, esperienze professionali) relatori di interfacciarsi direttamente coi ragazzi. Non è un caso che il livello del discorso si sia sempre spostato dal dibattito teorico all’esperienza concreta, personale.
Testimonianze che, a mio parere, sono state contraddistinte da una convinzione di fondo: la valenza educativa, formativa e culturale del lavoro. Di tutti i lavori. Anche (se non soprattutto) quelli manuali. Affermare la valenza educativa, formativa e culturale del lavoro vuole dire contestare indirettamente la tendenza affermatesi in Italia di differenziare le conoscenze teoriche con quelle pratiche. Una certa scuola, purtroppo, non considera il lavoro come qualcosa che possa rivendicare la dignità culturale e le potenzialità formative della conoscenza “d’aula”. Per molti è soltanto segno di una sconfitta personale, destinato ai falliti della conoscenza teorica e, sul piano educativo, paradigma dell’esecuzione meccanica, dello sfruttamento e dell’alienazione.
I tanti interventi ascoltati, invece, hanno affermato l’importanza che nei percorsi formativi si possano promuovere esperienze di alternanza tra conoscenza teorica e pratica, tra studio e lavoro al fine di scoprire la propria vocazione professionale. Esempi chiarissimi illustrati al Meeting (Cometa o di Piazza dei Mestieri) testimoniano come questa alternanza formativa possa diventare una strategia di insegnamento e di apprendimento diffusa e di successo.
Guardando ai Paesi esteri, in particolare agli Stati di lingua tedesca, si nota come la costruzione di percorsi misti sia positivamente correlata al tasso di disoccupazione giovanile: laddove i ragazzi incontrano già durante gli studi le prime esperienze di lavoro, i tassi di disoccupazione sono più bassi.



Nel campo normativo, è questa stessa la sfida dell’apprendistato. In particolare dell’apprendistato per l’acquisizione di una qualifica o diploma professionale. La forma più “bella”, ma anche più incompiuta, di questo contratto. Quella che si rivolge ai giovani in età dell’obbligo e che sarebbe un’ottima arma contro dispersione e abbandono scolastico.
Tuttavia il problema dell’occupazione giovanile non è solo questione normativa. E neanche esclusivamente criticità scolastico/formativa. Coinvolge anche le imprese, le istituzioni, le famiglie. Ma ancor di più gli stessi giovani, chiamati a non cedere alle avverse condizioni economiche. Lo “scoramento” di cui tante ricerche sociologiche parlano descrivendo la generazione “né né” (né studio, né lavoro) è il rischio più grosso che oggi possa correre un ragazzo che si affaccia al mercato del lavoro. Tirare i remi in barca o accontentarsi, scoraggiato, della soluzione più comoda.
Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid il Papa ha ricordato che “la domanda di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. (…). È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare, di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande”.
Guardando i tanti giovani presenti al Meeting, e se ne sono accorti anche i relatori che con loro hanno dialogato, era difficile non scorgere la tensione descritta dal Papa.
Che è poi la sola molla che permette di affrontare con grinta e senza lamentoso assistenzialismo anche il (grave) problema occupazionale.

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