L’Istat ha pubblicato i dati relativi al mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione registrato, anzitutto, è dell’8,0%: nessuna variazione rispetto allo scorso mese, un aumento dello 0,3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. «Un trend che non ci dice nulla di nuovo; salvo quello sulla disoccupazione giovanile, che rileva come la vera battaglia, in Italia, si stia consumando sul terreno dello scontro inter-generazionale». La pensa così Emilio Colombo, docente di Economia internazionale dell’Università di Milano Bicocca, intervistato da ilSussidiario.net. E in effetti,  i numeri non sono rassicuranti: i giovani senza lavoro sono il 27,6%, con una riduzione congiunturale dello 0,2% mentre, su base annua, sono aumentati dello 0,8%.

«I dati – spiega Colombo, introducendo la sua analisi generale – sono preliminari. Non dicono nulla di particolarmente inedito, se non che è aumentata leggermente l’occupazione, mentre la disoccupazione è rimasta stabile. Si è arrestata, in sostanza, la perdita di posti di lavoro ma l’assenza di crescita non ci permette di crearne di nuovi in numero consistente». Per farsi un’idea più precisa sarà necessario ragionare, quando saranno disponibili, sui dati settoriali. «Occorre comprendere – spiega – se saranno confermate le dinamiche consuete. Queste, di norma, rilevano come il settore maggiormente penalizzato sia quello industriale-manifatturiero. Quello che, sinora, ha maggiormente connotato l’andamento occupazionale».

L’Italia, in questo campo, mostra le maggiori criticità. «Si tratta di settori in cui siamo esposti alla concorrenza esterna, la cui debolezza rileva il nostro problema fondamentale: la competitività». Un bel problema, dato che, al momento, non si può fare affidamento su altro. «La nostra industria dipende quasi esclusivamente dalla domanda esterna, perché quella interna è stagnante da anni. E la manovra, certamente, non aiuta il mercato locale. Con le recenti misure di finanza pubblica, infatti, non c’è da aspettarsi che il potere d’acquisto dei cittadini aumenti». Dobbiamo rivolgerci all’estero, come abbiamo sempre fatto.

«A Cina, India e Brasile, in particolare, perché gli altri Paesi sviluppati hanno i nostri stessi problemi. Tuttavia, per penetrare in questi mercati occorrono strutture aziendali particolari. La nostra micro-impresa, in tal senso, è penalizzata». Difficile, allo stato attuale, attendersi un sostegno dal governo. «Le ricette per rilanciare la competitività sarebbero sempre le stesse: investire in ricerca e sviluppo e liberalizzare.  Il governo dovrebbe attuare, inoltre, una seria politica commerciale, promuovendo le nostre imprese all’estero. Cosa che molti altri Paesi fanno decisamente meglio di noi». Anche le imprese, dal canto loro, dovrebbero fare la loro parte.

«La loro scarsa dimensione le limita. Dovrebbero aggregarsi, fondersi. O essere vendute. Non mi scandalizzo quando le multinazionali acquistano le nostre aziende. E’ un modo come un altro per aumentarne la dimensione e renderle operative su scala mondiale. L’importante è che la produzione resti in Italia». In ogni caso, i numeri, di per sé, non sarebbero particolarmente allarmanti. «L’8 per cento è un dato che, seppur ben lungi dall’essere positivo, non è elevatissimo. Ci conviviamo da anni ed è in linea con quello delle altre nazioni europee. Ciò che è estremamente preoccupante, invece, è la disoccupazione giovanile».

Secondo Colombo, i giovani si trovano ad essere doppiamente penalizzati: «pagano le pensioni – spesso altissime – degli anziani e, al contempo, hanno enormi difficoltà ad accedere al mercato del lavoro per pagare le proprie». Il male ha molteplici radici: «Il sistema non è meritocratico e l’università non immette repentinamente nel mercato del lavoro, per esempio».  Ma una, in particolare, va sottolineata: «Pochi lo dicono. Ma l’efficienza dell’industria tedesca non dipende solamente dagli ingegneri. Di quelli ne abbiamo in abbondanza anche noi. Loro, in più, dispongono di un gran numero di tecnici specializzati non laureati. Il nostro sistema formativo, da questo punto di vista è estremamente carente. Siamo pieni di ottimi licei ma di pessimi istituti professionali. Bisogna dare la possibilità ai nostri giovani che non fanno l’università di fare quei lavori qualificati che il mercato richiede».