L’ultima spiaggia o, piuttosto, un percorso di vita? È la domanda che ci siamo posti mille e mille volte, parlando di apprendistato. Non si tratta di una domanda di maniera: la questione è calata nell’esperienza della Scuola Oliver Twist di Cometa a Como, un istituto che offre percorsi di formazione professionale a quasi 300 giovani che, con un’espressione edulcorata dall’inglese, chiamano drop-out, i dispersi, vale a dire quanti sono stati espulsi dai percorsi scolastici regolari.
Una scuola sui generis, che spesso si trasferisce in azienda, dove si impara con una dinamica singolarmente rovesciata: al mattino nel cuore stesso delle imprese, spesso artigiane, accanto a dei maestri di lavoro; al pomeriggio in aula, ad ascoltare insegnanti che innestano, su quelle esperienze, concetti e storie capaci d’allargare gli orizzonti di questi giovani.
Per questo, ogni volta che ci poniamo la domanda su cosa debba essere l’apprendistato, non possiamo che riaffermarne il positivo. Un cammino di educazione vera e non la rottamazione di talenti inespressi o incompresi, un deposito caritatevole per persone incapaci a tutto. Probabilmente, perché annettiamo al lavoro stesso una dimensione educativa che oggi, da molte parti, ci si affretta a negare, vivendolo come alienazione o condanna, come pedaggio da pagare e da cui velocemente accomiatarci, che si tratti della fine della giornata o della pensione.
Nella nostra esperienza, l’apprendistato è una modalità concreta e operativa, attraverso la quale giovani che faticano a permanere nel sistema educativo tradizionale – eccessivamente rigido e sclerotizzato, dove le diversità, di carattere, di capacità, di talento, non sono contemplate e conducono all’esclusione – possono essere reinseriti, se non inseriti tout-court, in un percorso di educazione e di conoscenza.
Non discorsi, ma storie concrete, accompagnate tutti i giorni, carne e sangue di adolescenti che parevano refrattari a qualsiasi proposta; giovani arresi, ma non per un disagio sociale o familiare, quanto per una fatica generazionale a dar senso a sé e alla realtà intorno. Storie come quella di un nostro allievo, che chiameremo Moretto, 17enne, di buona famiglia, borghese, agiata, di quelle che non fanno mancare niente ai propri ragazzi. Moretto, dopo una serie lunghissima di insuccessi scolastici, è arrivato nella nostra scuola, con poca fiducia in sé e nelle proprie capacità di riscatto. Con nessuna aspettativa dalle figure adulte, men che meno quelle dei professori. Come altri, a lui è toccata un’azienda tessile, seria, quadrata, di quelle che resistono alla crisi, tanto sono governate con passione.
Quando abbiamo fatto la verifica periodica con i tutores che seguono i ragazzi nei reparti, in un percorso di job-rotation perché tutti possano vedere i vari aspetti della produzione, su Moretto ci siamo spaventati. “Non va”, ha detto il primo intervistato. E così il secondo e anche un terzo caporeparto ha scosso il capo. Oddio, ci siamo detti, Moretto non ce la farà, neppure qui. E invece, il quarto, il responsabile dell’ufficio stile, ci ha accolti col sorriso sulle labbra: “Moretto? Un genio”.
Era semplicemente accaduto che questo ragazzo, così introverso e dall’anima così acciaccata dalle tante domande rimaste senza risposta, aveva trovato nelle forme, nell’accuratezza, nella creatività di quel pezzo di produzione tessile, un lavoro che pizzicava le corde più profonde del suo talento, che lo rianimava, gli ridava consapevolezza di sé, della sue possibilità, forse del suo stesso esistere.
Moretto il difficile, Moretto l’impossibile, Moretto l’irrecuperabile aveva trovato fra le pezze di sete, fra i fiori, le fantasie e le mille sfumature di colore, la cifra del proprio io. Quello che nessuna delle scuole frequentate sino ad allora aveva saputo fare. E Moretto aveva cominciato imparare, cioè a vivere.
Secondo quello che il ministro Sacconi ha raccontato al Meeting di Rimini, in uno degli incontri di apertura sulla formazione professionale, sono 256mila i Moretto d’Italia. Il nuovo apprendistato potrebbe diventare un’opportunità per tanti di loro e per altri che verranno. Se saprà essere educazione vera.
Come la storia delle botteghe tardo medievali e rinascimentali è ancora oggi esaltante documentazione: in quei luoghi si insegnavano i mestieri dei pittori, degli scultori, degli arazzieri. E, producendo bellezza, si forgiavano grandissimi artisti, ma anche uomini veri.
(Alessandro Mele)