Il dibattito sull’articolo 8 della manovra recentemente approvata ha tutti gli ingredienti per essere velenoso. Approssimazione nel descrivere le novità, analisi tecniche pregiudizialmente orientate (da ambedue i versanti), toni apocalittici fino al limite del ridicolo (“balcanizzazione del diritto del lavoro”, “violenza contro i diritti”, “abolizione del diritto del lavoro”), fantasiose ipotesi sulla reale applicazione della norma, troppa politica (tanto partitica, quanto sindacale). Non c’è quindi da stupirsi che si capisca poco della reale posta in gioco.
L’articolo 8 non è un attacco sotterraneo e brutale al diritto del lavoro? Siamo di fronte a una norma inserita di fretta e nottetempo nella manovra più grave degli ultimi decenni per colpire i diritti dei lavoratori? Si tratta davvero di un’aberrazione giuridica nella tecnica e nelle finalità?
Il tono delle domande anticipa le risposte: niente di tutto questo. E allora? L’articolo 8 è forse l’unico provvedimento sostanzialmente orientato alla crescita e alla maggiore produttività contenuto nella manovra di settembre. Può avere, quantomeno teoricamente, effetti espansivi senza le controindicazioni recessive (quali quelle derivanti da buona parte delle altre novità, incentrate o sulla minore spesa o sul minor gettito fiscale), poiché può essere strumento di uno scambio virtuoso lavoratore/datore di lavoro per la maggiore produttività.
Legittimo non essere d’accordo e comprensibile l’incomprensione dei giuristi di matrice legge-centrica. Ma non giustificabile la mancata considerazione dell’apprezzamento della Bce per la norma (anzi, probabilmente la Banca centrale europea avrebbe suggerito anche misure ben più drastiche) o del favore delle imprese o della Germania (che, anche in questo ambito, ci ha anticipato di qualche anno). Anche i giovani intuiscono i possibili effetti benefici della norma, pensata per superare le troppe rigidità del lavoro italiano che innanzitutto loro sperimentano sulla propria pelle.
L’articolo 8 non contiene nessuna modifica al quadro legale vigente, né un superamento di norme costituzionali. Si limita a offrire alle parti sociali (non tutte: quelle comparativamente più rappresentative, che è, alla fin fine, un altro modo per indicare le solite) la possibilità di concludere intese a livello aziendale o territoriale deroganti la legge (per determinate materie) o il contratto collettivo nazionale. Tali intese assumono, grazie a questo intervento legislativo, efficacia erga omnes (novità per le nostre relazioni industriali).
In discussione non c’è, quindi, la legittimità dell’intervento, bensì la sua effettiva praticabilità. Il sindacato eredita dalla manovra spazi di contrattazione e intervento inediti. Innanzitutto a lui, prima ancora che alle aziende, il legislatore ha affidato i reali esiti della riforma. Certo, se l’attenzione si concentrerà tutta sull’articolo 18, vero e proprio tabù del diritto del lavoro italiano (nonostante sia oramai acclarato il nesso tra rigidità in uscita e mancate assunzioni), è difficile prevedere il successo della norma. Ma se il sindacato si accorgerà che l’articolo 8 gli permette di intervenire su materie fondamentali per le imprese moderne quali, soprattutto, le mansioni dei lavoratori, l’inquadramento del personale e la disciplina dell’orario di lavoro, allora non è da escludere che questa norma possa segnare un significativo passo verso la modernizzazione del nostro mercato del lavoro, ancora caratterizzato da una produttività bassissima e da un contenzioso molto diffuso (175.000 nuove cause all’anno, soprattutto a causa di problemi proprio di inquadramento e retribuzione).
È vero, si tratta di un terreno inesplorato dalle nostre relazioni industriali, cresciute nella convinzione che solo la norma inderogabile di legge possa proteggere il lavoratore. Ma è anacronistico pensare di ingabbiare l’estrema varietà delle situazioni lavorative moderne in un’unica regola nazionale. Uniformi devono rimanere i diritti fondamentali del lavoro, come recita il penultimo comma dell’articolo 8, ma adattabili al singolo caso (innanzitutto aziendale) devono essere le diverse tutele. Questo è ora permesso quando concordato da lavoratori e datori di lavoro. A loro la scelta.