A un mese dalla ripresa lavorativa, dopo ferie e vacanze sognate per un anno (ma ormai dimenticate), appare uno scenario che, per certi versi, ha subito accelerazioni mai viste nel recente passato: l’andamento della Borsa come le montagne russe, una manovra economico-finanziaria discussa in agosto ma votata in men che non si dica dal Parlamento in settembre (rapida sul piano dei tempi di risposta, ma con molti dubbi sul piano della sua efficacia e della sua tenuta, ovvero sulla capacità di dispiegarsi nei provvedimenti successivi), una serie di avvenimenti internazionali senza soluzione di continuità rispetto ai mesi di luglio e agosto.



Anche sul fronte sindacale non sono mancate velocizzazioni delle decisioni e delle iniziative in settembre, periodo che notoriamente viene dedicato dalle Organizzazioni a sessioni di studio e di riflessione interna: uno sciopero della Cgil il 6 settembre (ma deciso in agosto), le mobilitazioni di Cisl e Uil nei giorni precedenti (comunque di sera, come quella lombarda davanti alla Villa Reale di Monza, sede dei “ministeri” annunciati in Padania), la firma definitiva dell’accordo raggiunto a giugno con Confindustria sulle rappresentanze sindacali e sui nuovi equilibri tra i livelli di contrattazione collettiva, le polemiche “da tifoseria” intorno all’articolo 8 della manovra richiamata.



Un settembre intenso e un ottobre non da meno (a Milano domani ci sarà un’altra manifestazione Cisl, che segnala le priorità di chi non vuole stare con le mani in mano, ma vuole rimboccarsi le maniche); quindi una stagione che si è già annunciata convulsa e piena di impegni, di fronte a una realtà che, di fatto, continua a metterci di fronte le priorità e le emergenze, almeno quelle che oggi vediamo come tali.

Intanto solo a livello centrale, ovvero al ministero dello Sviluppo economico, stazionano oltre 150 tavoli di crisi industriali, segno di un settore manifatturiero in profonda transizione di cui la vicenda Fiat è solo la punta dell’iceberg (Termini Imerese, Irisbus e ruolo di Mirafiori in futuro); non possiamo dimenticare inoltre che, accanto ai riassetti di imprese che leggiamo sui giornali, vi sono un numero (se va bene uguale) di persone che ruotano intorno alle imprese dell’indotto, della filiera e dei servizi (appalti, ecc.) che vengono coinvolti, “nel silenzio” dei media, della politica e del sindacato.



Se la dimensione dei problemi è di questa rilevanza, allora le iniziative in tema di occupabilità, messe in campo dai recenti provvedimenti, hanno bisogno di un respiro di condivisione verticale e orizzontale per poter funzionare: sui temi prioritari dei giovani e del lavoro, degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive occorrono azioni corali, in termini di comportamenti collettivi dei diversi protagonisti.

C’è bisogno di condivisione, di accordi reali e non di forma, di indirizzi e percorsi virtuosi e meno sulla carta, in cui conflitto, scambio, accordo e cooperazione rappresentino componenti che si intrecciano in processi postivi di collaborazione. E questo riguarda tutti, Regioni in primis, ma anche tutte le altre articolazioni periferiche delle istituzioni, della politica e delle parti sociali.

Imboccare la strada per favorire occupazione regolare significa costruire condizioni normative adeguate alle singole situazioni, per non spaventare nessuno e, contemporaneamente, consentire il dispiegarsi di una speranza nel futuro: infatti, tutti abbiamo incominciato con un rapporto di lavoro a termine, anche chi ha iniziato a lavorare negli anni ‘60 e ‘70, seppur in una prospettiva condivisa. Allora, per esempio, far decollare il nuovo apprendistato significa abbandonare certe pratiche elusive, come i falsi tirocini formativi, le co.co.pro. fasulle, le finte cooperative in alternativa alla somministrazione regolare e allo staff leasing.

Ecco perché, parlando di comportamenti virtuosi, il decollo di un effettivo decentramento delle relazioni sindacali è decisivo ai fini di incentivare gli stessi comportamenti virtuosi, utili e necessari nelle singole e diversissime situazioni di lavoro; non si tratta di destrutturare il diritto del lavoro, di consegnarlo “non si sa bene a chi”, si tratta di permettere a soggetti titolati e responsabili, con mandati di rappresentanza reale e non fittizia, di poter adeguare norme e istituti (anche di natura economica e retributiva) alle reali situazioni, per poter favorire le necessarie transizioni e nuove opportunità lavorative.

La firma definitiva da parte della Cgil dell’accordo citato sulla rappresentanza è un buon auspicio e una buona condizione: un plauso a Susanna Camusso, che questa volta non si è lasciata irretire da una Fiom che inizia a perdere qualche ricorso giudiziario (e forse anche un po’ indebitata finanziariamente con la propria casa madre per poter alzare tanto la voce). Ecco perché è necessario che quell’accordo, che, ricordiamolo, dà un minimo di certezza sull’efficacia della contrattazione aziendale, si possa e si debba estendere a tutti i settori, oltre a quelli del perimetro associativo di Confindustria.

C’è bisogno di un movimento, una cultura, una pratica di comportamenti virtuosi da parte di molteplici soggetti, una partita da giocare in molti; in questa fase a ciascuno è assegnata una responsabilità e nessuno può permettersi il lusso di ritirarsi dal campo.

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