Precario, letteralmente, è colui che è soggetto “a venir meno”, incerto, provvisorio, in ambito medico anche “cagionevole”. Da qualche anno questa parola ha riscosso un crescente successo nella sua accezione lavoristica: il precario è colui che ha un rapporto di lavoro temporaneo o, comunque, non garantito.
Considerata l’elevata disoccupazione giovanile italiana e le tipologie contrattuali attraverso le quali buona parte dei giovani entra nel mondo del lavoro, col tempo si è affermato sui media il binomio inscindibile “giovane precario”. Invero il termine “precariato” ha un’accezione esclusivamente sociale, non certamente giuslavoristica. I concetti giuridici più fedelmente associabili sono “flessibilità” e “atipicità”.
Queste parole individuano, seppur indirettamente, le ragioni del ricorso a contratti diversi (e perciò atipici) dal modello standard del tempo indeterminato: esigenze di carattere organizzativo ed economico dell’impresa moderna. In questo senso è necessario distinguere i contratti che perseguono questo fine originario dai rapporti che approfittano delle diverse tipologie contrattuali per aggirare la legge. In altre parole, non tutti i contratti atipici sono contratti precari.
Chi sono oggi, davvero, i “precari”? Nonostante la crisi economica, i dati ci dicono che la maggior parte di contratti temporanei sono concentrati nel settore pubblico più che nel privato, dove l’urgenza del confronto nel mercato rende difficile il permanere di situazioni croniche di precariato. La tendenza che si è affermata negli anni nella Pubblica amministrazione, invece, ha messo in secondo piano il principio costituzionale del buon andamento e la regola dell’accesso al lavoro pubblico mediante concorso.
Al blocco delle assunzioni, le amministrazioni pubbliche hanno spesso reagito attraverso un ampio impiego di processi impropri di esternalizzazione e di forme di lavoro flessibile. Il perdurare della precarietà sfrutta l’inoperatività per il pubblico della sanzione della conversione del rapporto temporaneo illegittimo in rapporto a tempo indeterminato (come avviene nel settore privato). Cosicché in molti casi si è concessa, dopo anni e per ragioni politico-sindacali, la stabilizzazione per decreto.
Nel privato il fenomeno più preoccupante è certamente quello dell’abuso di alcune tipologie contrattuali (si pensi ai famosi contratti a progetto), soprattutto per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Il recente fastidio per la norma contenuta nella manovra economica a riguardo dei tirocini è solo in parte spiegabile con la sovrapposizione di competenze Stato/Regioni: lo stage è diventato negli anni uno strumento utilizzato ben oltre la sua funzione di primo contatto e orientamento del giovane inoccupato nel mercato del lavoro.
In diverse occasioni, negli ultimi mesi, il Santo Padre Benedetto XVI ha affrontato il problema del “precariato”. Parlando coi vescovi della Cei a maggio, il Papa ha chiesto “alla politica e al mondo imprenditoriale di compiere ogni sforzo per superare il diffuso precariato lavorativo, che nei giovani compromette la serenità di un progetto di vita familiare”; appena arrivato a Madrid, ad agosto, ha ricordato che “molti giovani guardano con preoccupazione al futuro di fronte alla difficoltà di trovare un lavoro degno, o perché l’hanno perduto o perché precario e insicuro”; infine, durante il congresso eucaristico nazionale, a settembre ha definito la “spiritualità eucaristica via per restituire dignità ai giorni dell’uomo e quindi al suo lavoro, […] nell’impegno a superare l’incertezza del precariato e il problema della disoccupazione”.
Le parole del Papa, con buona pace di molta stampa orientata, da una parte non ignorano la gravità del problema, dall’altra non ne riducono le dimensioni alla sola richiesta di nuove e migliori leggi. La Chiesa sa bene che la legge e la politica non hanno capacità taumaturgiche, né educative. Anche lo Stato più efficiente non può avere successo in questo ambito se non si attiva la responsabilità innanzitutto di imprenditori e lavoratori. E degli stessi giovani, che, sfuggendo al rischio della comoda retorica della precarietà, non possono accontentarsi di essere “indignati” (“nessuna avversità vi paralizzi”), ma devono seguire il naturale impulso ad andare oltre all’abituale (la borghese normalità).
Benedetto XVI lo ha scritto chiaramente nel messaggio per la XXVI Giornata mondiale della gioventù: “È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande”; “stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani. Sì, la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande”.
È tabù osservarlo in un periodo economico oggettivamente avverso all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ma non è possibile contrastare il precariato giovanile senza l’impegno in prima persona degli stessi giovani, acceso motore di vitalità che può essere in grado di fare ripartire l’intero Paese.