La Bce è stata esplicita. Anche se segretamente. Nell’ormai famosa lettera inviata al governo italiano, aveva chiesto di acuire la rigorosità dei criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e equiparare quanto prima l’età pensionabile delle donne a quella degli uomini. Il tutto, subito, per ottenere risparmi già dal 2012. Niente da fare. Il governo ha risposto “ok”, poi, ha propeso per una soluzione meno drastica. Si parte dal 2014. Ma la Lega nord si è messa di traverso, avvertendo: le pensioni non si toccano. «Lega o non Lega, la riforma non è più procrastinabile. I rinvii, dal punto di vista economico e sociale non hanno alcuna ragione di esistere. Le ragioni dei continui rinvii riguardano squisitamente la dialettica interna ai partiti», è la convinzione di Paola Olivelli, professoressa di Diritto del lavoro presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Macerata raggiunta da ilSussidiario.net. Tuttavia, la Lega, in questa fase particolarmente convulsa, continua ad avere potere di veto sulle decisioni del governo. E, a toccare le pensioni di anzianità, proprio non ci pensa. «E’ probabile, spiega la Olivelli, che tra i suoi elettori vi siano una percentuale di lavoratori che ha iniziato a lavorare molto presto, a 15-16 anni. E che ha svolto lavori non propriamente usuranti, ma egualmente fisicamente molto faticosi. E che, quindi, costoro non abbiano alcuna intenzione di ritardare la propria pensione».  E’ comprensibile. Tuttavia, c’è da farsi una domanda. «Io mi chiedo – dice la professoressa – quanti siano, ormai, quelli che hanno iniziato a lavorare così presto. Se, infatti, il fenomeno era ancora massiccio negli anni ’60-70, oggi, con la scolarizzazione di massa, credo che siano davvero pochi quelli che sono entrati così presto nel mondo del lavoro. E’ già tanto trovare persone che hanno iniziato a lavorare a 18 anni…».  Su una cosa la Lega concede spazio. Ovvero, sulla stretta alla pensioni di reversibilità e di invalidità. «Anche qui: è molto probabile che si tratti di un calcolo elettorale. Storicamente, le pensioni di invalidità sono sempre state concesse, prevalentemente, al centro sud. Si è trattato di una decisione dello Stato per mettere una pezza ad un problema strutturale».



Una sorta di calmiere sociale: «per porre rimedio a quelle situazioni di indigenza o semi-povertà cui non si riusciva a far fronte in altra maniera. La gente che lavorava in campagna, ad esempio, era abbastanza scontato che la ottenessero». Tuttavia, metter mano a questi trattamenti previdenziali, sarebbe tutt0’altro che sufficiente. «L’unica strada da percorrere è quella dell’aumento dell’età pensionabile e dell’allineamento di quelle femminile a quelle maschili. La riforma è già stata fatta, negli anni ’90. Tuttavia, si applicava a chi iniziava a lavorare il primo gennaio del ’96. I suoi effetti, quindi, non si sono ancora prodotti. Occorre che qualunque nuovo provvedimento sia esecutivo fin dall’immediato». 

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