Hanno tra i 15 e i 29 anni, non studiano e non lavorano. In pratica, non fanno nulla. Spesso mantenuti da genitori rassegnati e afflitti, in apprensione per il loro futuro più di loro stessi. Sono i Neet (Not  in educazion employment or training), un fenomeno che, in Italia, ha assunto dimensioni decisamente preoccupanti. «Abbiamo fatto un’indagine conoscitiva, confermata dall’Istat: sono circa 2,3 milioni, pari al 20 per cento della popolazione in quella fascia d’età. Si tratta di un problema serio per il quale occorre intervenire», spiega, raggiunto da ilSussidiario.net Silvano Moffa, presidente della Commissione Lavoro della Camera. Che ci spiega in che misura si sta tentando di monitorare la situazione: «occorre, anzitutto, incentivare l’apprendistato, attraverso il quale sanare la discrepanza tra scuola e mondo del lavoro, e ampliare i periodo di stage, introducendo la possibilità di ottenere una retribuzione». Altro suggerimento, al quale fa riferimento l’indagine, «riguarda la possibilità, specie al Sud, laddove vi siano commesse pubbliche o interventi infrastrutturali finanziati da Stato o Regioni, di consentire l’utilizzo di giovani in prova provenienti dalle scuole tecniche, sotto forma di tirocinio. Allo scopo di avviare un inserimento nel mondo del lavoro mentre ancora si stanno ultimando gli studi».



Alla base del problema, vi sono in parte motivazioni di ordine culturale. «Gli italiani sono ancora legati al sogno del posto fisso. Si cerca il posto, non il lavoro. E non si apprezza sufficientemente il lavoro manuale. Eppure, la ricerca di muratori, falegnami o lavoratori del cuoio specializzati, ad esempio, è tale da lasciar prevedere una capacità reddituale superiore alla media. Tuttavia, si tratta di professioni artigiane ancora oggi considerate di serie b». Secondo Moffa, «è necessaria, da questo punto di vista, maggiore integrazione tra scuola, formazione e lavoro». L’impressione è che, oggi, in molti preferiscano inviare curriculum, e non fare altro in attesa che arrivi l’impiego della propria vita, quello in linea con il proprio percorso universitario. Quando invece potrebbero, nel frattempo, fare i camerieri (ad esempio), mantenersi, e continuare a cercare lavoro. «Purtroppo è così. Almalaurea ci faceva presente che gran parte dei giovani aspettano il posto corrispondente al titolo di studi e, intanto, rifiutano tutto ciò che non concerne o non li aggrada. Oggi, tuttavia, in un mercato del lavoro sempre più selezionato, selettivo e con un numero sempre maggiore di tipologie professionali, non è detto che si debbano per forza raggiungere risultati positivi attraverso l’utilizzo del proprio di studio».



Per Moffa, aveva ragione l’ex ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, quando invitava i giovani ad accettare, agli inizi, qualunque cosa (nei limiti della moralità e della legalità, ovviamente). «Anche tutto ciò che non riguarda il proprio percorso formativo costituisce ricchezza, aiuta a crescere a contribuisce al risultato in termini prospettici. Accettare un qualunque tipo di impiego, consente anzitutto di mantenersi. E, ad una certa età, non gravare sulle spalle dei genitori diventa anche una questione di dignità (a patto, ovviamente, che non ci siano circostanze oggettivamente impedenti)». Non solo: «così facendo, il giovane entra nella filosofia del lavoro, e si crea da solo quelle opportunità che, un giorno, si incroceranno con la possibilità di svolgere quella professione appagante per il quale ha deciso di studiare». 



 

 

(Paolo Nessi)