La ridefinizione della fase terminale della storia professionale e lavorativa che è stata delineata dalla riforma delle pensioni richiede con urgenza di porre mano a un nuovo disegno del lavoro, più che del mercato del lavoro, come erroneamente ci si affanna a commentare. Il lavoro e la sua valorizzazione economica, in un’economia di mercato, rappresentano il tassello fondamentale perché generano capacità di risparmio e di spesa, da un lato, ingredienti necessari per lo sviluppo e perché rafforzano la coesione sociale, dall’altro, consentendo la piena partecipazione alla comunità sociale e politica, ma anche la possibilità di mobilità sociale.
Mentre il Governo consulta le parti sociali, i media si scatenano nel dibattere dei soliti totem che rappresentano sul fronte del lavoro la struttura irrimediabilmente bloccata del nostro Paese: la necessità di ridurre le garanzie per i cosiddetti insider (coloro che godono di un rapporto a tempo indeterminato) per incrementare quelle degli outsider (più comunemente considerati “precari”), piuttosto che la modifica dell’articolo 18 che consente ai lavoratori di ottenere il reintegro. Il lavoro, ancora una volta, diventa quindi il mercato del lavoro o in una visione ancora più miope il sistema di regolazione del mercato del lavoro stesso, un tema ormai circoscritto al dibattito tra economisti e giuslavoristi. Ma è questo l’unico dibattito possibile?
Essendo ormai stufo di un dibattito tra risposte, credo sia opportuno dare una sterzata brusca e ricordare a tecnici e politici che il dibattito si deve fare sulle domande, perché non si può dare per scontato che il problema sia solo di meno regole. Il lavoro, come affermavo in apertura, è un elemento costitutivo della tenuta di un Paese che sia democratico e a economia di mercato e in quanto tale deve rispondere a molteplici esigenze: deve essere disponibile in quantità sufficiente a coprire le esigenze della popolazione, deve consentire alle persone di costruire i propri percorsi di realizzazione, deve favorire la promozione sociale dei meritevoli, deve contribuire a creare valore riconosciuto dal mercato e deve godere di un adeguato dinamismo legato all’innovazione nella ricerca e nelle imprese.
Mi domando quanto i cosiddetti esperti del mercato del lavoro abbiano presente questa definizione estesa del problema, limitati come sono al tema della domanda e dell’offerta di lavoro che considerano (erroneamente) solo alla stregua di una merce scambiata su un mercato. Quando si discute a vuoto di tecnici contro politici, in realtà si dimentica che su questo tema i politici si sono lasciati limitare dai tecnici ben prima che apparisse l’esigenza di un governo tecnico, adottando per l’appunto questa versione sterile e formale che non ci porta lontano.
Quali proposte ci possono portare su una strada migliore, allora? In primo luogo, si deve creare un sistema che allinei più facilmente i percorsi formativi agli esiti occupazionali e che sia rispettoso dell’esigenza di dare alle persona la possibilità di cercare percorsi di sviluppo professionali coerenti con i propri desideri, ma realistici. Questo richiede, ad esempio, un potenziamento dell’orientamento scolastico e universitario e l’inclusione di un’educazione al lavoro e all’economia a partire dalla scuola secondaria di primo grado, insieme ad altre competenze abilitanti di cui tanto si discute, ma pochissimo si realizza (lingue, informatica, ecc.). Inoltre, è necessario ricostruire strutture di formazione professionalizzante avanzata e di elevato livello, paragonabili alle università, ma con una vocazione immediatamente pratica. Un ruolo importante in questi processi dovrebbe essere giocato dalle istituzioni locali, assieme ad altri attori quali università, camere di commercio, imprese e parti sociali in generale in una logica di sussidiarietà che dovrà essere rafforzata da un percorso di costruzione di strutture istituzionali di collaborazione che spesso viene trascurato.
In secondo luogo, si deve uscire dalla visione stereotipata delle imprese propria di economisti e giuslavoristi e riconoscere che è essenziale potenziare i percorsi di investimento sull’innovazione organizzativa e tecnologica (assieme) attraverso meccanismi che incentivino la crescita dimensionale e la patrimonializzazione e stimolino quindi l’occupazione sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo. Gli incentivi, tuttavia, richiedono strutture della Pubblica amministrazione che siano competenti nel merito e non solo legate a un approccio burocratico e giuridico, intriso di cieco formalismo.
In terzo luogo, occorre che si denunci a gran voce il paradosso della gestione delle risorse per la bilateralità che vengono distribuite secondo logiche formalmente ineccepibili, ma molto lontane da una vera progettualità per l’occupazione e l’innovazione. È difficile, perché significa mettere in discussione davvero (e non solo con i manierismi delle dichiarazioni) una certa complice collusione tra le parti sociali che oggi amministrano queste risorse.
Infine, ma solo alla fine, è opportuno mettere mano all’assetto di regolazione del rapporto di lavoro, per semplificarlo e ridistribuire tra garantiti e non garantiti e tra pubblico e privato il peso della crisi. Ci sono numerose proposte sul tavolo, con differenze che sembrano più cosmetiche o di processo che di sostanza. Tutte queste proposte, tuttavia, funzioneranno solo se si genererà una diversa dinamica del mercato del lavoro con tassi di entrata e uscita più elevati.
Una condizione perché questa dinamica non sia a senso unico, sarà una profonda revisione degli ammortizzatori sociali che dovranno seguire le linee del rapporto Supiot e coprire le fasi di reinvestimento in competenze professionali dei lavoratori usciti dal mercato, più che cercare di far sopravvivere a prezzo della collettività imprese decotte e prive di valore. Se il lavoro deve assorbire più rischio, è ora che si decida che anche in Italia l’impresa è associata al rischio e non deve essere tutelata di per sé come accade con le normative medievali che proteggono ordini, commercio, taxi, ecc.
Chissà se questi cambiamenti potranno avere effetti anche sulla struttura gerontocratica di un Paese che dà potere (e ascolta, detto da tecnico relativamente maturo) solo gli ultrasessantenni che in molti paesi si godono un buen ritiro anticipato grazie a forme di integrazione previdenziale a scelta individuale!