Resta alta la tensione nella trattativa per la riforma del lavoro. Il ministro del Welfare, Elsa Fornero, sta preparando un nuovo testo da sottoporre a imprese e sindacati. Quello presentato lunedì scorso alle parti sociali, infatti, non è stato particolarmente gradito e le dichiarazioni del governo su cassa integrazione e articolo 18 non hanno di certo aiutato a rasserenare gli animi. «Bisogna restare ottimisti – dice a IlSussidiario.net Pier Paolo Baretta, ex segretario aggiunto della Cisl e deputato del Pd -. Teniamo presente che fino a qualche settimana fa nei sindacati c’era una spaccatura profonda che impediva confronti unitari e che il precedente governo perseguiva la divisione sindacale. Oggi invece i sindacati hanno una piattaforma unitaria e un governo con cui confrontarsi. È una novità interessante e di buon auspicio anche se non sarà affatto semplice raggiungere un accordo dato che le materie in discussione sono molte e rilevanti».
Quali sono a suo avviso i punti più delicati?
Bisogna innanzitutto fare i conti con la crisi e con la recessione economica. Il 2012 si presenta come un anno difficile, tra il rischio di un abbassamento della base occupazionale, le casse integrazioni e i licenziamenti. Per prima cosa, perciò, bisognerà trovare risorse sufficienti per tamponare la situazione. Al tempo stesso non possiamo accontentarci del tampone, serve una vera riforma.
E quali sono le proposte del Partito Democratico?
Per prima cosa ridurre a tre o quattro le figure professionali e contrattuali che oggi sono oltre 40. Dopodiché lo stesso deve essere fatto con gli oltre 400 contratti nazionali. Dopo aver operato questa semplificazione bisogna cercare di superare la precarietà.
Come?
Una delle strade è quella di allungare il periodo di prova, consentendo alle imprese una flessibilità in entrata maggiore. Per il lavoratore alla fine dei tre anni scatterebbero tutte le tutele, articolo 18 compreso. Accanto a questo bisogna uniformare i contributi previdenziali e stabilire che un’ora di lavoro saltuaria non può costare meno di un’ora ordinaria.
A proposito di articolo 18, sbaglia Monti a insistere sul fatto che non deve più essere un tabù?
Non sbaglia. I tabù ideologici non servono più, ma è bene che si chiarisca. Se stiamo parlando di licenziamenti per ragioni di giusta causa già esistono regole che li governano. Se parliamo di licenziamenti per ragioni economiche si può paragonare la singola persona alle istanze collettive. Se invece parliamo di licenziamenti senza motivo allora non c’è nessuna ragione per cambiare le regole attuali. Una cosa però si può fare.
Quale?
Rispondere a un grave problema degli imprenditori e dei lavoratori. Non è accettabile che in questi casi servano tre anni per sapere chi ha ragione e chi torto. Bisogna assolutamente accelerare i tempi delle cause di lavoro.
Anche sulla possibile cancellazione della cassa integrazione il governo ha fatto preoccupare i sindacati.
Non voglio commentare le singole dichiarazioni. Quello che conta è il contenuto del tavolo.
Bisogna evitare di esasperare i toni.
Il Pd comunque ha trovato una posizione unitaria? Le tesi di Pietro Ichino sono state accantonate?
Guardi, nel partito c’è una larga convergenza e comunque sia la flexicurity che il modello danese non sono alternative a quello che sto dicendo, anzi lo integrano. Quel modello infatti non serve solo a licenziare, ma anche a favorire ricollocazione di fronte a crisi aziendali.
Il tema del lavoro resta comunque il più pericoloso in termini di consenso per i democratici?
Assolutamente no. Perderemo consenso se ci dimostreremo incerti rispetto alla strategia che abbiamo scelto, che è quella di risanare l’Italia. Siamo una forza responsabile e affidabile che lavora per salvare l’Italia non per il nostro tornaconto.