Le incredibili dimensioni raggiunte dalla disoccupazione giovanile e l’inadeguatezza di un sistema che penalizza i giovani sono sotto gli occhi di tutti e costituiscono una grave preoccupazione, anche in prospettiva, per lo sviluppo del nostro Paese. Parte del problema è costituito dal fatto che non si riconosce più l’importanza del lavoro manuale e che sia il sistema scolastico che la mentalità delle famiglie conducono i ragazzi a considerare negativamente queste tipologie di occupazione, di cui invece c’è grande bisogno in Italia. In questo contesto apprendere lavorando può risultare una grande opportunità per un cambiamento resosi ormai necessario e da realizzarsi anche attraverso l’utilizzo di strumenti contrattuali idonei allo scopo.



Da qui nasce la mia riflessione sull’istituto dell’apprendistato, che ritengo possa essere considerato attualmente secondo due accezioni. Può innanzitutto intendersi come uno strumento in grado di sviluppare la formazione che la scuola non svolge, ponendosi come indispensabile punto di integrazione tra scuola e lavoro e contribuendo a favorire una rivalutazione e un corretto apprendimento del lavoro manuale. Oppure può intendersi come un contratto di inserimento, meno rigido e meno costoso di altre forme contrattuali e da applicarsi nella prima fase della vita lavorativa delle persone. L’attuale impostazione non riesce però a rispondere compiutamente a nessuno dei due obiettivi, pur prevalendo la funzione di inserimento lavorativo.



Il problema è che un contratto d’inserimento con obblighi formativi, per essere efficace, deve potersi applicare più semplicemente, garantendo inoltre una maggiore qualità della formazione. Non dev’essere, ad esempio, vincolato a tipologie di formazione svolte dal pubblico senza effettivi riferimenti ai contenuti necessari, deve godere di forti sgravi contributivi, di minimi contrattuali bassi e dev’essere pensato per una durata di tre anni, senza obbligo di conseguente assunzione a tempo indeterminato.

Fondamentale è inoltre l’apertura che la normativa potrà dare alle Agenzie per il lavoro (Apl), che sono in grado di farsi carico dello sviluppo professionale della persona riducendo il rischio che l’azienda pensi più al proprio interesse diretto che a quello della risorsa impiegata. Le Apl, in quanto “terze parti” competenti, sono nella condizione di poter valorizzare al massimo le esigenze sia delle persone che delle aziende. Se invece lo scopo è prettamente formativo, mi sembra allora fondamentale migliorare l’attuale contratto di apprendistato attraverso un ingente investimento, anche temporale, nella formazione, con il contributo di scuole e università e l’applicazione di forti ed efficaci obblighi formativi.



Ancora una volta risulta necessaria la presenza di un “soggetto terzo” che tuteli il percorso della persona. Si configurerebbe così un contratto utile per i giovanissimi, che consenta loro di andare a scuola e lavorare; oppure che permetta ai neolaureati di frequentare master di specializzazione resi possibili da una forte riduzione della retribuzione a favore di un cospicuo investimento formativo. Condizione necessaria per il miglior funzionamento dell’apprendistato è in ogni caso una importante riduzione del minimo salariale: solo in questo caso e con queste modifiche potremo disporre di un efficace strumento per imprese e persone, capace di contribuire alla crescita che tutti ci attendiamo.

 

 

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