Un afflato autolesionista sembra attraversare, in questi giorni, le menti di chi sta mettendo a punto la riforma del mercato del lavoro. A partire dal ministro del Welfare, Elsa Fornero, discendendo sino ai singoli parlamentari che hanno depositato delle proposte di legge in materia. Obiettivi della riforma dovrebbero essere, contestualmente al garantire la sostenibilità del sistema, il superamento del precariato e del dualismo tra insider e outsider. Peccato che, secondo Maurizio Del Conte, professore di Diritto del Lavoro alla Bocconi raggiunto da ilSussidiario.net, «si determineranno effetti opposti alle intenzioni».
Si sta via via delineando in questi giorni, infatti, la forma che assumerà il nuovo sistema occupazionale: scomparirà l’articolo 18. Ma solo per i nuovi lavoratori. Che dovranno essere assunti a tempo indeterminato, ma saranno licenziabili senza giusta causa o giustificato motivo (salvo, ovviamente, questioni discriminatorie legate alla religione, al sesso o alla razza) e, in tal caso, avranno diritto a un semplice indennizzo. «L’idea di fondo – continua del Conte – sembra essere quella di estendere a tutti il precariato. Rendendo un contratto a tempo indeterminato, di fatto, come un qualsiasi contratto precario, dal quale il datore di lavoro può recedere in qualunque momento senza bisogno di giustificazione. Non si capisce questo come possa contribuire alla stabilità del rapporto di lavoro».
L’indennizzo di cui si parla, poi, non sarebbe altro che una vera a propria fregatura. «Tutto dipenderà dalla sua entità. Secondo l’ipotesi che, attualmente, va per la maggiore corrisponderà al massimo ad alcune mensilità, nell’ordine di un mese di rimborso cumulabile ogni sei mesi di lavoro effettuato. Stando così le cose, si tratterà di una garanzia addirittura inferiore a quella prevista per i contratti a tempo determinato. Essi, infatti, non sono risolvibili prima del termine, salvo motivi gravissimi. In caso contrario, prevedono il pagamento di una penale pari ai mesi che mancano alla risoluzione». Sarà incrementata anche un’altra connotazione negativa del nostro sistema: «Si amplierà il divario tra chi è protetto, gli insiders, e chi non ha alcuna tutela, gli ousiders. Tale divario si verificherà su larghissima scala; possiamo affermare che la misura, quindi, rappresenta un moltiplicatore di iniquità sociale».
Deve pur esserci un modo per venirne a capo. «Nessuno si è mai fatto carico – spiega Del Conte – di verificare con precisione la legge 604 del 1966, che definisce il concetto di “giusta causa” e “giustificato motivo”. Definizioni, in realtà, estremamente generiche. Andrebbero, quindi, specificati e circoscritti tutti quei casi in qui il licenziamento è effettivamente illegittimo». È esperienza comune leggere o sentir ripetere che tutto questo ce lo sta chiedendo l’Europa. In realtà, le cose stanno in maniera leggermente diversa: «Il documento più significativo in materia è la Carta sociale europea, emanata in sede di normativa comunitaria. Ebbene: essa stabilisce che il lavoratore ha diritto alla tutela contro il licenziamento illegittimo. Nessuna legislazione nazionale degli stati membri dell’Unione europea che privasse il lavoratore della possibilità di far valere l’ingiustificatezza del licenziamento sarebbe conforme ai principi del diritto europeo».
Le richieste dell’Europa, quindi, non consistono nella mera abolizione dell’articolo 18. «È dal 2006 che l’Ue spinge verso un sistema all’insegna della flexicurity». In sintesi: «All’azienda occorre riconoscere che ci sono dei casi in cui il licenziamento è legittimo; quando, ad esempio, è costretta a farlo per motivi economici o perché deve ristrutturarsi e modificare le proprie linee produttive. Ma alla perdita del posto di lavoro si deve accompagnare un percorso di ricostruzione della professionalità che porti il disoccupato a restare appetibile sul mercato».