Secondo Napolitano, tra le emergenze di adesso, quella cui porre subito rimedio riguarda i lavoratori nelle situazioni maggiormente disagiate; ovvero, i precari, i cassaintegrati, chi ha perso il lavoro e via dicendo. Per questo, si è detto convinto della necessità di rivedere gli ammortizzatori sociali. Una preoccupazione in larga parte condivisa, le cui risoluzioni, tuttavia, vanno attentamente calibrate. «Il nostro mercato del lavoro è estremamente duale. Accanto a una fascia di lavoratori estremamente protetti, quelli che già ne fanno parte, ce n’è un’altra estremamente penalizzata, tipicamente giovani e donne», spiega, raggiunto da ilSussidiario.net, Emmanuele Massagli, vicepresidente di Adapti. Il motivo di una tale difformità è semplice: «I più penalizzati sono quelli che versano meno. In Italia, infatti, gli ammortizzatori sociali sono erogati su base assicurativa. Per cui, si riceve nella misura in cui si paga». E, a pagare, non può certo essere lo Stato. Non può più permetterselo. «Si tratta di un riforma non sostenibile per il bilancio dello Stato, che negli ultimi anni ha destinato circa 40 miliardi alla cassa integrazione durante la crisi; può esserlo unicamente se il suo costo sarà scaricato sulle imprese, aumentandone la soglia contributiva».
Molte imprese, tuttavia, in Italia, a stento riescono a sopravvivere. Difficile immaginare per loro un aggravio contributivo per aumentare la propria capacità di ammortizzazione. «La strada diventa percorribile se in cambio si concede loro maggiore libertà nella determinazione dei rapporti di lavoro. Ad esempio, con la possibilità di sospenderli per certi periodi durante le fasi di crisi. In sostanza, si tratterà di superare le logiche dell’articolo 18. Del resto, il governo deve evitare di partire dal presupposto secondo il quale l’azienda è più cattiva del lavoratore. La maggior parte di esse, infatti, non riesce ad andare avanti perché, effettivamente, mancano gli ordini». Resta il fatto che parte delle imprese italiane potrebbero disporre dell’aumento della flessibilità come arma di ricatto nei confronti dei propri dipendenti. «Alle maggiore flessibilità, infatti – continua Massagli –, dovrà corrispondere una maggiore protezione in caso di sospensione o di terminazione del rapporto di lavoro. In tal caso, lo scambio diventerebbe contrattabile con il sindacato». A tal proposito, il governo non potrà prescindere, come ha fatto sinora, da alcune accortezze. «Benché i sindacati, spesso, facciano politica e si arenino su rendite di posizione, in materia di relazioni industriali – come la storia insegna – vanno coinvolti, per evitare tensioni sociali».
In ogni caso, per il governo, la riforma è una priorità solo in maniera indiretta. «L’urgenza è quella di trovare un modo per aumentare l’occupazione. Se occorrerà aumentare le flessibilità, non si potrà pensare di farlo senza introdurre come contropartita più ammortizzatori per chi tale flessibilità dovrà subirla». L’importante, secondo Massagli, è non ripetere gli errori della Legge Biagi. «Allora, l’aumento della flessibilità non fu contestuale ad un incremento delle protezioni per i lavoratori. Se persiste una tale logica, si rischia di produrre l’effetto opposto, e aumentare la disoccupazione».