In questo periodo di successo (mediatico e politico, quantomeno) per i “tecnici”, gli esperti del singolo ambito scientifico, il richiamo giuslavoristico più concreto per il nuovo anno lo abbiamo invece ascoltato da alcuni professori di umanità e fede. Non sono materie che meritano un Ministero, ma certamente interessano le persone. In particolare, mi riferisco ai contenuti del messaggio che Benedetto XVI ha scritto per la celebrazione della giornata mondiale della pace (1° gennaio). Eloquente il titolo: “Educare i giovani alla giustizia e alla pace”. Scrive il Papa che i giovani «esprimono il desiderio di poter guardare con speranza fondata verso il futuro», nonostante i molti «aspetti che essi vivono con apprensione: il desiderio di ricevere una formazione che li prepari in modo più profondo ad affrontare la realtà, la difficoltà a formare una famiglia e a trovare un posto stabile di lavoro, l’effettiva capacità di contribuire al mondo della politica, della cultura e dell’economia per la costruzione di una società dal volto più umano e solidale». Il cardinale Caffarra, celebrando il Te Deum nel Duomo di Bologna, rivolgendosi alla città ha detto, senza mezzi termini, che «gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile sono spaventosi; come non pensare che in questo modo distruggiamo il nostro futuro? In nome di Dio, scongiuro tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche: mettete al primo posto del vostro impegno l’accesso dei giovani al lavoro».



I nodi da sciogliere per il mercato del lavoro italiano sono molteplici: le pensioni, la riforma degli ammortizzatori sociali, il rilancio delle politiche attive, la semplificazione normativa, ecc. Ma tra tutti il più importante, in questo momento storico, è certamente quello dell’occupazione giovanile richiamato dal Papa e dal Cardinale. Le politiche passive sono state al centro dell’attenzione politica e sindacale per più di tre anni. Certamente la crisi non è finita. È vero che non si può escludere un peggioramento dei dati del mercato del lavoro mano a mano che finiranno le casse integrazione in deroga (quelle destinate alla protezione di posti di lavoro non di rado spacciati e quindi senza possibilità di ripresa futura). Non trascurabile è la situazione dei tanti disoccupati over 50 che non riescono a rientrare nel mercato, ma ciononostante subiscono il continuo susseguirsi di riforme che spostano in avanti la soglia dell’età pensionabile.



Tutto vero. Ma non c’è futuro economico, produttivo, pensionistico e, in fondo, anche politico, se non iniziano a lavorare, ovvero a contribuire attivamente alla costruzione della nostra società (e, prima ancora, della loro persona), i tantissimi giovani tra i 16 e i 30 anni che tutti dicono di voler aiutare, ma che nessuno è davvero disponibile a sostenere. Economicamente (le banche), occupazionalmente (gli imprenditori e la Pubblica amministrazione), legislativamente (il Parlamento). Ormai il problema è arcinoto. È stato fotografato dai professori universitari e dai commentatori politici da tutte le possibili angolature. Non serve più studiarlo, quanto affrontarlo.



Il Governo si è persuaso che la strada possa essere il contratto unico di Ichino o la proposta Boeri-Garibaldi? Se lo crede proceda in tempi brevi. I sindacati dicono che la soluzione è il rilancio del contratto di apprendistato appena ammodernato? Rinnovino o integrino i contratti collettivi in questo senso per affermare definitivamente l’apprendistato professionalizzante e si mettano al tavolo con le Regioni per attivare finalmente il primo e il terzo livello. Il Ministro del lavoro è convinto che il superamento dell’articolo 18 comporti maggiori opportunità occupazionali? Convochi al più presto le parti sociali per dialogare con le componenti sindacali più riformiste e strutturare un’ipotesi concreta di intervento.

L’impressione, però, è che sotto sotto sia per tutti meglio affrontare il problema solo dialetticamente, nei salotti televisivi o nelle sale dei convegni. Il timore mai detto, negato, ma evidente, è che un potenziamento delle politiche attive per i giovani corrisponda a un indebolimento delle rendite di posizione (tanto quelle dovute e meritate, quanto quelle odiose) di chi già lavora. Non è vero. L’esperienza comparata ce lo dimostra: la Germania, l’unico Stato europeo che ha accresciuto l’occupazione complessiva lo scorso anno, ha un tasso di disoccupazione giovanile tra i più bassi del Continente.

Non c’è una ricetta magica per creare occupazione. Le diverse proposte legislative di cui si parla tanto ultimamente vendono un’idea sbagliata: nessun posto di lavoro si crea per decreto. D’altra parte la legge può facilitare le assunzioni e incentivare la propensione ad assumere dei tanti imprenditori che, nonostante la crisi, hanno ancora voglia di rischiare e scommettere sulle capacità della propria azienda. Il mezzo più agile, già pronto, affermato in tutta Europa e coerente con quello che hanno scoperto le principali istituzioni internazionali durante la crisi (formazione concreta e in assetto lavorativo=minore disoccupazione giovanile) è quello del contratto di apprendistato. L’ingresso dei cosiddetti outsider nel mercato del lavoro deve ripartire da qui.

Nei prossimi mesi si concluderà la fase di passaggio tra vecchio e nuovo ordinamento. Se l’apprendistato riformato saprà superare i limiti che hanno contraddistinto la (breve) vita del suo antenato, allora è possibile che i dati sull’occupazione giovanile possano rincominciare a crescere. Se invece si affermeranno nuovamente le complessità burocratiche e le lentezze sindacali e regionali che hanno affossato l’apprendistato ex legge Biagi, allora tanto vale scommettere sulle confuse proposte di contratto unico. Consci, però, che queste non hanno la “forza occupazionale” che può avere la diffusione dell’apprendistato all’europea.

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