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A fronte dell’attuale discussione in corso sul tema della produttività, è giunto il tempo di chiedersi, con molta chiarezza, se sia intenzione del Ministro e delle Parti Sociali compiere un definitivo passo in avanti o, piuttosto, un pericoloso passo indietro. Infatti, assistendo attentamente al dibattito in corso sui contratti a termine, non possiamo esimerci dal domandarci se si intende procedere nella direzione che sembrava avessimo intrapreso – e di cui lavoratori e aziende hanno estremo bisogno – quella, cioè, di indicare la strada maestra della flessibilità sicura o se, al contrario, si ritiene di dover sacrificare delle due l’una, nell’errata convinzione che non possano coesistere: la flessibilità, che resta necessaria alle aziende per essere competitive, ovvero la sicurezza lavorativa, invocata, a ragione, dalle persone. Ma davvero non esiste una soluzione capace di soddisfare entrambe le esigenze, contribuendo a un miglior funzionamento del mercato del lavoro?



Si era infatti compiuto un passo verso una maggiore sicurezza per i lavoratori, ma senza percorre la strada sino in fondo. Trovandosi a constatare che si è generata minore flessibilità, si decide ora di tornare indietro, riducendo di nuovo la sicurezza? Alla prima critica si torna, dunque, sui propri passi e, per restituire flessibilità, si ricomincia a puntare su contratti assolutamente meno sicuri per il lavoratore, ridando maggiore spazio ai contratti a termine? Siamo certi che non sia, invece, il momento di tentare fino in fondo di percorrere una terza via?



Si tratta di una scelta fondamentale, cui il Governo e le Parti sociali non possono sottrarsi, soprattutto in questa fase, così delicata. Scelta che si rivela ancor più importante in una fase del ciclo economico in cui la crescita ha grande bisogno di flessibilità e in cui l’impatto di quest’ultima sulla vita delle persone rischia di essere devastante.

Alla luce di questo ragionamento, risulta di conseguenza ancor più decisivo e indispensabile il superamento di schemi mentali obsoleti che impediscono di vedere come l’intervento degli intermediari costituisca una soluzione capace di coniugare un efficace supporto per la sicurezza e per la continua impiegabilità dei lavoratori con la flessibilità richiesta dalle aziende, a costi e fiscalità adeguati (la cosiddetta flexicurity).



Se, infatti, è vero che i limiti posti dalla Riforma – compreso quello che tocca la reiterazione dei contratti a termine – vanno nel senso di una maggiore tutela del lavoratore, imbrigliando però nel contempo le aziende nella loro esigenza di flessibilità, è altrettanto vero che tornare indietro su questa strada ci farebbe ritornare al punto di partenza, mentre dobbiamo riconoscere che una soluzione capace di aumentare le condizioni di sicurezza senza ridurre le opzioni di flessibilità per le aziende ci sarebbe.

Il suo nome è “contratto di somministrazione”, gestito dalle Agenzie per il lavoro. Contratto che, per consentire efficacemente una flessibilità sicura, andrebbe reso più conveniente innanzitutto normativamente e, in secondo luogo, economicamente. Questo può avvenire attraverso diversi interventi: eliminando definitivamente la causale per il ricorso ai contratti di somministrazione; abolendo il tetto numerico per i lavoratori assunti a tempo indeterminato dalle Agenzie per il lavoro; precisando che nel conteggio dei 36 mesi non vanno computati i predetti lavoratori assunti a tempo indeterminato; inserendo nella norma ciò che è stato detto nella circolare interpretativa n. 18/2012, ossia che al raggiungimento dei 36 mesi di contratto a termine, le aziende possono continuare a utilizzare la stessa persona tramite il contratto di somministrazione; ma, soprattutto, creando una contribuzione di vantaggio per i lavoratori assunti a tempo indeterminato dalle Apl (e ripristinando, nel contempo, il versamento del contributo del 4% interamente a Formatemp).

Così facendo, si favorirebbe un orientamento positivo, anche in modo esplicito, nei confronti di un unico strumento di flessibilità – la somministrazione – mettendo al bando non già la flessibilità in sé, ma solo quella che conduce alla precarizzazione del lavoratore o nel breve o nel medio termine, come quella che passa attraverso il lavoro a progetto, le partite Iva o i contratti a termine stessi.

Tornando alla domanda iniziale, Governo, datori di lavoro e sindacati sono dunque oggi a un bivio: decidere se fare l’ennesimo passo indietro, dopo aver timidamente provato a farne uno avanti, o avere il coraggio di lasciarsi provocare e rispondere alla crisi incidendo in modo decisivo, con una soluzione innovativa, in grado di far evolvere seriamente il nostro Sistema-Lavoro.

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