In principio, la riforma del mercato del lavoro avrebbe dovuto constare di due sole misure: l’abolizione dell’articolo 18 e l’introduzione del contratto a tempo indeterminato come forma di assunzione prevalente. Poi, è stato quel che è stato. E, sotto il condizionamento di una serie di veti contrapposti, l’impostazione iniziale è esplosa in una miriade di nuove regole, commi, e interpretazioni. Che, se da un lato hanno complicato la disciplina, dall’altro hanno irrigidito notevolmente il mercato occupazionale. In sostanza, tutto il contrario delle finalità auspicate. Ora il ministro Fornero pare intenzionata a tornare sui suoi passi. Almeno in parte. Almeno, per quanto riguarda la norma che prevede che tra un contratto a termine e l’altro intercorra un periodo di almeno 60-90 giorni. IlSussidiario.net ha fatto il punto sulla situazione con Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro presso la Bocconi di Milano. «L’aggiustamento ipotizzato configura un vero e proprio ripensamento, quando non addirittura un pentimento rispetto all’impianto iniziale. Il termine dei 3 mesi, infatti, avrebbe, di fatto, reso il contratto a termine utilizzabile non più di una volta soltanto». Il perché è evidente: «La reiterazione sarebbe stata impossibile perché nessun imprenditore la cui attività non sia legata alla stagionalità, ha la possibilità di aspettare tre mesi prima di riutilizzare il lavoratore. Non esiste, d’altro canto, alcun lavoratore che possa permettersi di stare tre mesi senza lavorare. In quel periodo, quindi, cercherebbe altro, non rendendosi più disponibile per il suo precedente datore». Ne deriverebbe un esito infausto: «Resterebbe tagliata fuori dal nostro mercato del lavoro una realtà che, pur comprendendo casi di abuso, rappresenta una forma di flessibilità protetta. Non dimentichiamo, infatti, che il contratto a tempo determinato garantisce per tutta la durata del termine tutti i diritti di cui godono i lavoratori subordinati». Secondo Del Conte, ridurre l’intervallo tra un contratto e l’altro, quindi,  segnerebbe una piccola svolta. «Nella logica delle riforma sarebbe dovuto diventare una sorta di prova lunga. Ma, in tal caso, si sarebbe utilizzato uno strumento sbagliato per un fine particolare».



Altro fronte caldo sul quale intervenire, è la disciplina dei contratti d’apprendistato. Avrebbero dovuto costituire la modalità di ingresso nella stabilizzazione preminente. Ma così non è stato. «Qualsivoglia ipotesi di modifica dovrebbe confrontarsi con le ragioni dell’insuccesso. L’apprendistato, infatti, stenta a decollare nonostante la riduzione dei contributi sia significativa». Per Del Conte, sarebbe sufficiente ascoltare le imprese per comprendere le ragioni di tale circostanza: «L’apprendistato è gravato da una serie di oneri burocratici e di condizioni incerte sulla formazione da offrire al lavoratore che ne fanno uno strumento difficile da gestire e rischioso. Alla fine del periodo, infatti, potrebbe venire certificata l’insufficienza della formazione offerta e richiesto all’impresa di restituire lo sgravio contributivo offerto inizialmente». 



Rispetto agli incentivi per assumere a tempo indeterminato, le cose vanno ancora peggio. «Qualunque azienda sa bene che la restituzione di parte dello sgravio introdotto per la stabilizzazione del contratto a termine non rappresenta altro che la compensazione di un aggravio, e non un vero incentivo». In conclusione: «Tutta la parte della riforma relativa alla flessibilità in entrata ancora non ha prodotto effetti positivi; effettivamente, a oggi, sono passati pochi mesi. Quando basta, tuttavia, per osservare piccoli peggioramenti. Credo che il nuovo atteggiamento del ministro rifletta, quindi, la consapevolezza della situazione e la volontà di correre ai ripari».



 

(Paolo Nessi)