In questi giorni si è animato il dibattito tra chi vuole un’Italia indipendente da nazioni e istituzioni estere e “padrona in casa propria” e chi contrappone la preoccupazione per una classe politica che stenta a riprendere il controllo della situazione e propende per un’Ue più forte e integrata. In questo contesto di discussione, che contempla problematiche finanziarie di politica estera e di democrazia europea, la meritocrazia è una questione spesso sottovalutata ma basilare per capire la nostra situazione e risolvere molti dei nostri problemi. Il costo della politica, l’evasione fiscale e la corruzione rappresentano questioni che incidono parecchio sul nostro benessere economico e sociale e che inducono l’opinione pubblica a scagliarsi contro le categorie incriminate (politici, evasori e criminali), tuttavia le cause della nostra crisi sono molto più profonde e riguardano la società civile nel suo complesso.



Come ha spiegato mirabilmente il prof. Vaciago nel suo ultimo intervento a Ballarò, già nel 1800 Quintino Sella sosteneva che “il pareggio di bilancio si fa con la tassa sul macinato”: sono i piccoli numeri e le prassi quotidiane, associate alla parte più numerosa della popolazione, a causare lo squilibrio del Paese. Tradotto nel contesto attuale, significa che la crescita del Pil e il contrarsi del debito possono essere raggiunti non con artifici finanziari o arginando gli sprechi di singole categorie, anche se deprecabili, ma con una migliore organizzazione complessiva del lavoro e con un’introduzione massiccia di meritocrazia nell’universo economico, imprenditoriale, bancario e politico.



In poche parole, in ogni Comune, Regione, Ente e organizzazione, poca meritocrazia corrisponde a scarsa crescita e scarsa etica pubblica per il Paese. Secondariamente, la meritocrazia ha un impatto strategico sulle relazioni con i nostri partner politici e finanziari esteri, che come spiega bene il prof. Sapelli, non sono solo ingombranti ospiti che cercano di sottrarci i “gioielli di famiglia”, ma sono stati, sono e – speriamo – saranno in futuro, parte essenziale della crescita del nostro Paese e del miracolo Italiano del Dopoguerra. In sintesi, scarsa meritocrazia significa poca stima e poca fiducia nei nostri confronti da parte banche e stati europei ed extraeuropei. Se continuiamo ad avere modi bizantini e contorti di difendere il nostro orticello, con monopoli, leggi incomprensibili e comportamenti egoistici, difficilmente chi ci ha prestato denaro in passato lo farà ancora e, anzi, vorrà rientrare rapidamente dall’investimento.



In Italia la meritocrazia è spesso sostituita da un forte corporativismo, da forme di regionalismo eassistenzialismo sociale. In particolare, vi è un blocco socio/politico maggioritario, composto dalla classe politica attuale, dal sindacato e dai mass media che sostengono e difendono a ogni costo – alcune volte in buona fede – gli interessi corporativi e di tutela delle maestranze pubbliche, private e imprenditoriali. Nel breve periodo, grazie alla cassa integrazione e ai sostegni legislativi e ai diritti acquisiti a diverso titolo, questo impedisce il fallimento e la disoccupazione, garantendo la cosiddetta tenuta sociale, nel medio-lungo periodo però sta causando una mancata crescita del Pil, l’impossibilità di ripagare il debito e l’esclusione dal benessere di ampie categorie sociali.

Guardare sempre alla questione dell’italianità o alla conservazione dei posti di lavoro pubblici o privati, senza pensare al merito e alla creazione di nuovo lavoro, sta provocando il dissesto economico attuale. Ed è proprio questa prassi la causa della crisi di rappresentatività del blocco socio/politico nella parte più sana e dinamica del Paese, fenomeno che induce i nostri partner internazionali a “commissariare” la nostra gestione politica.

Anche il cittadino capisce che, se da un lato si difendono i suoi interessi particolari, dall’altro purtroppo la situazione complessiva si sta deteriorando e le “ricette” attuali non possono portare verso un futuro migliore. Oltretutto questo blocco della conservazione ha il difetto di non far uscire ampie categorie sociali da una zona di relativo comfort, sempre più limitante, impedendo la nascita di un’alternativa reale. In sintesi, se lo Stato o il mio datore di lavoro, mi paga dai 4 ai 7 anni di cassa integrazione, senza che io lavori, perché dovrei trovarmi un’altra attività? E allo stesso tempo, se lo Stato garantisce attività sorpassate perché dovrebbero svilupparsi settori più profittevoli e moderni?

La necessità è condizione irrinunciabile dell’alternativa e la mancanza di credibilità della classe politica rende sempre più stretta la strada del cambiamento. Se invece la triade Politica, Sindacato e Mass Media, si convincesse della bontà di una ricetta meritocratica, abbandonando il tradizionale buonismo, coglierebbe molteplici obiettivi. Innanzitutto ci sarebbero categorie sociali più sane, più indipendenti, più libere, oltre che lavoratori più capaci di autotutelarsi e aziende sane. Secondariamente la stessa economia sarebbe più moderna e dinamica, in grado di approfittare delle opportunità di un contesto internazionale integrato. Meno monopolisti, ma più attori economici consapevoli, meno dipendenti protetti, ma più posti di lavoro. Il Paese avrebbe inoltre un rapporto più costruttivo con i partner internazionali, che ci chiedono, ormai da anni, di fare maggiore attenzione al Merito per essere più simili a loro.

Per quale motivo allora continuiamo a difendere la nostra specificità culturale ed economica, se ci ha portato a essere indebitati, criticati e abbandonati in un mondo sempre più globale e interconnesso? Sarebbe ora di riconoscere l’esigenza di cambiamento e di definire un sistema sociale del tutto nuovo, con lo scopo di avvicinare le nostre modalità a quelle presenti in altri paesi e di soddisfare le richieste delle multinazionali e del settore bancario. Le stesse battaglie per la nostra autonomia e differenza economico/culturale sono controproducenti se non sono supportate da risultati confortanti, né da una reale capacità economica. Le aziende possono investire altrove, i capitali fuggono e a noi rimangono debito pubblico e disoccupazione.

In mancanza di un cambiamento rapido, gli effetti di questa resistenza saranno gravi per il Paese e per la classe dirigente, che perderà credibilità, con grave danno per la democrazia e per il diritto di autodeterminazione di tutti noi.