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L’Italia destina alle politiche per la rioccupazione l’1,8% del Pil, di cui l’1,5% alle indennità e solo lo 0,3% alle politiche attive. Dato tanto più sconcertante se paragonato a quello degli altri paesi europei, soprattutto quelli nordici e del centro Europa, che invece riservano alle politiche per la perdita del lavoro e la rioccupazione il 3% del Pil: di cui l’1,5% alle politiche passive e altrettanto alle politiche attive, svolte soprattutto attraverso lo strumento dell’outplacement. In Italia, dove è appena stata varata una Riforma del lavoro, cosa è stato posto in essere per rimediare a questa situazione?



Durante il periodo precedente la discussione sulla riforma, le Parti sociali e gli attori politici hanno sottolineato l’assoluta necessità di utilizzare strumenti di politica attiva per dare nuovo e vigoroso impulso al mercato del lavoro. A questo proposito, le ipotesi più significative emerse erano due: la prima era costituita dal disegno di legge Treu-Cazzola, che prevedeva l’obbligo per le aziende, in caso di licenziamento, di farsi carico di un progetto di supporto alla ricollocazione del lavoratore, con l’intenzione di dare una risposta concreta al problema principale, quale è la perdita del lavoro, improvvisa e spesso drammatica. La seconda proposta era quella del Senatore Ichino, che suggeriva – a fronte di un articolo 18 che si auspicava potesse diventare ben più flessibile di quello delineato dalla Riforma – che fosse l’azienda a farsi carico dei costi dell’eventuale secondo anno di ammortizzatori per il disoccupato, dopo un primo anno pagato dall’Inps. Questo scenario avrebbe certamente incentivato – e non poco – le aziende a individuare una nuova occupazione per le persone licenziate, se non altro per evitare l’onere di un extra-costo.



Verrebbe da chiedersi quali delle due ipotesi si è deciso di percorrere al termine dell’iter di discussione della Riforma. Ma purtroppo non è andata così. Infatti, ahimè, l’articolo 18 è stato modificato solo in minima parte rispetto a quelle che erano le speranze iniziali e nessuna delle due ipotesi richiamate ha, infine, visto la luce. A tutt’oggi, all’interno del procedimento di conciliazione obbligatoria – assai interessante quanto a coattività e tempestività con cui viene disciplinata – la nuova norma si limita a suggerire che, all’atto della conciliazione, le Parti concordino un progetto di supporto alla continuità professionale del lavoratore, senza però identificare gli strumenti adeguati per incentivare l’attuazione di questo progetto, né, tantomeno, per renderlo vincolante.



Indubbiamente è bene sottolineare che, fino a poco tempo fa, parlare di progetti di sviluppo di ricollocazione professionale in sostituzione o a integrazione dei tradizionali sussidi, era assolutamente impensabile: quindi un piccolo passo avanti è stato compiuto. Ma questo non basta. L’esperienza fatta in questi anni, soprattutto dalle società di outplacement, specializzate nel supporto alla ricollocazione, ha dimostrato – su un target sufficientemente ampio – che il sostegno alla ricerca del lavoro attraverso progetti specifici, ha un effetto positivo nel ridurre il tempo medio di ricollocazione, che si è attestato negli ultimi anni tra i 5 e i 6 mesi per circa il 90% dei soggetti presi in carico.

Questa esperienza positiva è efficace per l’azienda che deve licenziare, per la persona che deve trovare una nuova occupazione, per l’azienda che assume, per lo Stato che incassa le imposte e per le società specializzate che svolgono il proprio lavoro. Inoltre, sta finalmente mettendo in discussione il principio ideologico del sussidio passivo, che vige da tempo immemorabile, e ha contribuito ad aprire un varco, per ora più culturale che normativo, di fondamentale importanza per i soggetti che operano nel mercato del lavoro. In che modo? Indicando – nei fatti – come sia più utile affrontare la fatica di un percorso attivo il cui valore si dimostra ben più elevato per le parti perché riporta nel sistema attivo del lavoro le persone che ne sono fuori.

Questo, però, è solo l’inizio: spetta oggi a tutti gli attori coinvolti promuovere la conoscenza dell’outplacement, difendendo innanzitutto la qualità del servizio, per arrivare ad ampliare un mercato che in Italia è ancora a livello embrionale: basti pensare che, considerando le società iscritte all’Aiso, sono solo 23.000 le persone sostenute in un anno nel loro percorso di reinserimento lavorativo. Circa le Parti sociali, in particolare, riteniamo che occorra un processo di grande maturazione, capace di slegarsi da logiche di breve periodo e di pura erogazione di sostegni economici, per privilegiare invece efficaci strumenti di reinserimento nel mondo del lavoro.

Tutto ciò non può non coinvolgere i responsabili delle politiche pubbliche, che, a nostro avviso, hanno il compito di proporre progetti di sussidio attivo, in grado di condurre a un uso più mirato delle risorse comuni, affiancando maggiormente ai puri strumenti di sussidio passivo strumenti di politica attiva, capaci di contribuire a un sano sviluppo del mercato del lavoro.

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