Dopo aver lanciato l’allarme sul fisco (“le imprese muoiono di tasse”) agli Stati generali della Lega di sabato scorso, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi torna a soffermarsi sul costo del lavoro e sulla produttività. Il “sogno” del numero uno di viale dell’Astronomia è semplice: l’Italia ha perso 20 punti di competitività nei confronti della Germania. È arrivato il momento di riprenderne almeno 10. “Qualunque tipo di provvedimento sulla competitività – ha detto Squinzi – passa per il fatto che bisogna lavorare di più, più ore, diminuendo festività e ferie, eliminando certi meccanismi di protezione anche eccessiva”. Il presidente di Confindustria afferma di aver notato mai come adesso “che tutti sono disponibili a mettere qualcosa sul tavolo” e per questo si dice “fiducioso”. Eppure, al suo arrivo a Bruxelles per la conferenza Techitaly 2012, fa sapere che “se una vera ripresa fosse nel 2015 ci metterei la firma”. Insieme a Domenico Carrieri, professore ordinario di Sociologia economica e Sociologia del lavoro presso l’Università di Teramo, commentiamo le parole del leader di Confindustria.



Professore, è davvero necessario lavorare di più per aumentare la produttività italiana?

Le parole di Squinzi non evidenziano solamente la necessità di un numero maggiore di ore lavorative, ma anche di migliori e innovativi meccanismi che possano aiutare a lavorare meglio e con una migliore organizzazione. All’interno del pubblico impiego, per esempio, tali aspetti potrebbero rivelarsi davvero utili.



Su quali altri aspetti dovrebbe basarsi questa “ricetta” per favorire la produttività?

E’ ovvio che non si può puntare solamente sul fattore lavoro. Sono numerosi gli studi e le ricerche che evidenziano quanto le ragioni della bassa produttività del nostro sistema siano da ricercare altrove, in due aspetti in particolare.

Quali?

Il primo riguarda la scarsa propensione italiana verso un’innovazione tecnica e organizzativa: l’incremento delle tecnologie intelligenti e modelli organizzativi più avanzati aiuterebbero senza alcun dubbio ad accrescere la produttività italiana.

Il secondo aspetto?



Il secondo, in qualche modo collegato al primo, riguarda la piccola dimensione di impresa. E’ proprio questa, in molte occasioni, a non permettere alle aziende di investire in modo adeguato nella direzione della produttività. E’ quanto mai opportuno ricercare, sia per le imprese che per i lavoratori, quei meccanismi che consentano una maggiore innovazione ed eventualmente un maggior lavoro.

Per esempio?

Per fare un esempio, nel momento in cui vengono introdotte quelle nuove tecnologie e quei nuovi modelli organizzativi di cui parlavo, è necessario coinvolgere attivamente i lavoratori in modo da ottenere un maggiore interessamento e impegno. Soprattutto in questo periodo, invece, noto purtroppo che molte imprese italiane, pur avendo introdotto meccanismi avanzati lo fanno in modo molto superficiale e poco partecipativo. Questo ovviamente non potrà mai motivare la forza lavoro in direzione di una maggiore produttività.

Quindi possiamo dire che le parole di Squinzi sono corrette, ma che l’argomento andrebbe analizzato molto più in profondità?

Certo, le parole di Squinzi non hanno niente di sconvolgente, ma il percorso da ricercare è decisamente più complicato di quanto può apparire. Credo sia innanzitutto ragionevole mettere in campo patti concreti che possano coinvolgere lavoro, sindacato e impresa con l’obiettivo di raggiungere una maggiore produttività e competitività. E’ però necessario uscire una volta per tutte dall’ambito delle buone intenzioni e cercare di produrre finalmente risultati concreti.

Quali sono le maggiori differenze tra l’Italia e gli altri Paesi europei?

Il nostro Paese ha avuto per 20 ani una delle produttività più elevate al mondo, fino agli inizi degli anni Novanta, per poi far registrare invece un declino significativo. Non è però il livello di protezione del lavoro che spiega la produttività di un Paese e i colleghi europei che hanno fatto registrare significativi incrementi in tal senso sono coloro che meglio di tutti hanno riorganizzato l’apparato produttivo, in particolare quello industriale, come la Germania. E’ altrettanto chiaro che altri Paesi, come Olanda e Gran Bretagna, hanno invece investito molto in servizi alle imprese.

Invece l’Italia?

L’Italia presenta il più delle volte servizi a bassa produttività che richiederebbero a loro volta forti riforme e innovazioni. Insomma, in conclusione posso dire che lavorare di più ed eliminare forme di protezione eccessive possono essere considerati degli strumenti, ma difficilmente possono rappresentare la strada maestra da perseguire per dare una risposta ai problemi di fondo del nostro sistema produttivo.

 

(Claudio Perlini)