Secondo una recente indagine condotta dal Centro Studi Datagiovani in esclusiva per Repubblica, negli ultimi otto anni sono raddoppiati gli indici del lavoro “atipico” (preferiamo utilizzare questo termine invece di “precario”) tra gli under 35, passando dal 20% del 2004 al 39% del 2011 e nel primo trimestre 2012 si sarebbe già sfondato il muro del 40%. Un giovane su due con meno di 24 anni è inquadrato con forme di lavoro “atipico”, circa il 23% tra i 25 e i 34 anni, contro percentuali pressoché dimezzate per le classi d’età più mature.
Premesso che a volte la mancata stabilizzazione di un lavoratore è imputabile a proprie responsabilità (vedasi la provocazione tutt’altro che infondata sui giovani schizzinosi), è innegabile che, in questi anni, qualcheduno possa aver abusato di una flessibilità senza molte tutele, che indubbiamente determina una difficoltà da parte delle persone a concepirsi in una logica di continuità di medio-lungo termine, sia per quanto riguarda il lavoro, sia per quanto riguarda anche la costituzione di una famiglia.
Ricordiamo tuttavia che lo scorso anno una ricerca del Crisp (Centro di ricerche dell’Università di Milano Bicocca), condotta nelle regioni del nord Italia, ha mostrato come la mobilità delle persone è sempre più crescente, indipendentemente dalla tipologia contrattuale utilizzata per la regolarizzazione del rapporto di lavoro. La durata media per le assunzioni con contratti a tempo determinato è pari a 6 mesi circa; per il tempo indeterminato è pari a circa 14 mesi il tempo medio presso il medesimo datore di lavoro. Se, quindi, il contratto a tempo indeterminato ha una durata media di 14 mesi, è evidente come non si tratti più, per contesto economico mutato, di contratto di lavoro il cui termine è il raggiungimento dell’età pensionabile. Ma non lo è mai stato nemmeno nella sua definizione. Per questo è utile non confondere flessibilità e precariato.
Come la flessibilità possa essere un fenomeno che agevola le imprese senza pesare in termini di precarizzazione sul lavoro delle persone è il problema principe che la recente riforma Fornero ha voluto affrontare. Il deciso irrigidimento apportato dalle modifiche introdotte per le collaborazioni a progetto, le partite Iva e i contratti a termine sta sempre più spingendo le imprese a un cambiamento nell’utilizzo degli strumenti che fino a oggi hanno gestito il lavoro flessibile. La strada maestra indicata dalla riforma, anche se in modo alquanto silenzioso, è il ricorso al lavoro somministrato: è questa oggi la modalità più conveniente per le aziende per la gestione del lavoro flessibile. Di fatto, si tratta anche di un positivo passo in avanti verso la flexicurity, ovvero verso un mercato che può coniugare la flessibilità necessaria per le imprese e la sicurezza auspicata dal lavoratore.
Le Agenzie per il lavoro sono sempre più attori protagonisti del nostro mercato, in cui – ricordiamolo – l’85% dall’incontro domanda-offerta (dato Unioncamere) avviene attraverso il canale informale (in Germania il 60%): sono anche un soggetto che già nel fare lavoro temporaneo migliora la condizione del lavoratore perché, se da una parte offrono flessibilità alle aziende, dall’altra di fatto la persona si ritrova ad avere un partner che è in grado di crescerla, formarla, trovarle un altro lavoro, pensare con lei un progetto di crescita professionale, cosa che una persona con un contratto perfettamente in linea con la legge, un contratto a tempo determinato diretto, non ha. Perché l’azienda che prende una persona a termine, se ne ha bisogno solo per un periodo flessibile, non investe su di essa. Ciò viene evidentemente accentuato nella misura in cui l’Agenzia viene a stabilizzare il lavoratore attraverso, per esempio, lo staff leasing (la somministrazione a tempo indeterminato).
Inoltre, nel caso dell’apprendistato, l’agenzia può farsi carico di assumere la persona, costruire un vero percorso formativo che non è fatto né dall’azienda che non lo fa, né dalla Regione, con l’interesse a stabilizzare il lavoratore e a far contenta l’azienda, veicolando un percorso formativo verso l’azienda e sgravando quest’ultima di tutte le incombenze burocratico-amministrative, consegnandole una persona che è in formazione e che costa meno di quella normale, perché comunque essendo in apprendistato gode di questi vantaggi.
Il ruolo dell’Agenzia è sempre più attivo nella gestione e nella crescita del candidato e sempre meno da “passacarte”; le stesse aziende oggi non sono così forti nella gestione del lavoratore, soprattutto le piccole e medie: sono più forti nella gestione dei loro prodotti e dei loro mercati.
La recente Riforma Fornero, nel ridurre sensibilmente le tipologie atipiche utilizzabili dai datori di lavoro, riconosce appunto nell’istituto della somministrazione il canale privilegiato di accesso al mercato e, unitamente, un mezzo di tutela per contrastare la precarietà del lavoro garantendo alle imprese, in termini di organizzazione del lavoro e gestione delle risorse umane, l’ottimizzazione delle risorse economiche.
Nonostante le scelte legislative dimostrino come alcuni passi in tal senso siano già stati compiuti – si pensi a titolo esemplificativo alla possibilità espressamente prevista di assumere in somministrazione giovani apprendisti – il superamento delle barriere culturali che nel nostro Paese non facilitano l’utilizzo dello strumento potrebbe essere favorito da qualche ritocco all’attuale disciplina del lavoro in somministrazione. In particolare, al fine di incentivare il ricorso a tale tipologia, sarebbe opportuna, come già taluni commentatori hanno dichiarato, l’eliminazione delle causali necessarie per l’accesso allo strumento, condizioni di utilizzo che rischiano di limitarne l’impiego; unitamente a ciò, l’abolizione del numero massimo di assunzioni a tempo indeterminato effettuabili dalle Agenzie: il limite, introdotto a tutela della cosiddetta potenziale precarizzazione dei lavoratori, sembra infatti non considerare che tali possono essere considerate assunzioni (da molti auspicate) già stabilizzate e che sollecitano la stessa Agenzia a rendere la persona da somministrare quanto più competente al fine di risultare tanto più appetibile sul mercato.
La stessa questione della “soluzione di continuità” (il cosiddetto stop and go), con riferimento al periodo transitorio tra un contratto di somministrazione a termine e l’altro, non è stata risolta dalla riforma Fornero e tale incertezza non facilita l’applicazione della disciplina e non agevola gli stessi lavoratori che possono trovarsi costretti a un periodo di “non lavoro” obbligato, tra un contratto e l’altro. Evidentemente, va altresì ricordato che modifiche de jure condendo sul tema ci sembrano non poter prescindere da azioni di tutela e controllo sul corretto esercizio delle funzioni delle Agenzie, al fine di garantirne la professionalità e l’attenzione allo sviluppo delle competenze adattabili dei prestatori di lavoro evitando fenomeni patologici; ciò unitamente ad azioni di sensibilizzazione e informazione nei confronti di aziende e lavoratori, ancor oggi per cultura lontani dal riconoscerne le piene potenzialità e positività in termini di accesso e mantenimento del lavoro.
Siamo a un punto di svolta, siamo in un momento in cui le Agenzie sembrano davvero essere liberate da vincoli e possano realmente andare a crescere il nostro mercato del lavoro, apportandovi qualità e stabilità. È la vision che del resto ha animato la legge Treu del ‘97, ma prima ancora l’attività forense di Pietro Ichino (vedasi caso Job Centre e sentenza Corte Europea ‘97), oltre che la stessa legge Biagi del 2003.