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Nell’agosto del 2011 la Bce indirizzava una lettera al Governo italiano in cui chiedeva, tra le altre cose, di spostare maggiormente la contrattazione lavorativa dal livello centrale, nazionale, a un ambito più decentrato, aziendale e territoriale, in grado di favorire accordi capaci di generare maggiore produttività nelle aziende. Tema, questo, ripreso di recente dal premier Monti, che, rivolgendosi alle Parti sociali, ha chiesto loro un accordo sulla produttività: a valle di questo dialogo il Governo ritiene di poter distribuire 1,6 miliardi di euro di defiscalizzazione sui premi di produttività. L’argomento, dunque è tanto attuale quanto, purtroppo, tuttora incompiuto. Vediamo perché.
Alle pressioni internazionali il Governo allora in carica reagì celermente, varando l’articolo 8 sul “Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità” (Decreto Legge 138/2011), finalizzato a consentire a contratti di lavoro collettivi sottoscritti a livello aziendale o territoriale di realizzare specifiche intese in deroga alle regolamentazioni nazionali. In questo modo, si è potuto attivare uno strumento che, a nostro avviso, costituisce certamente una buona arma in mano alle Parti sociali, poste nelle condizioni di poter incidere nella definizione delle proprie regole, secondo una concezione sussidiaria delle relazioni industriali.
I soggetti protagonisti nei processi delle relazioni industriali diventano così ancor più chiaramente proprio le Parti sociali e non lo Stato, chiamato a intervenire solo laddove l’intesa non venga raggiunta. E relazioni industriali libere e responsabili sono certamente, a nostro avviso, lo strumento più idoneo a concludere a livello aziendale scambi negoziali virtuosi, capaci di rendere l’impresa più competitiva. Tutto questo, naturalmente, a patto che si eviti di utilizzare la contrattazione territoriale come escamotage per aggirare la certezza della legge e la trasparenza del mercato.
Ma l’art. 8 costituisce un’opportunità molto valida anche per lo stesso Legislatore, che ha, in tal modo, la possibilità di valutare le sperimentazioni eseguibili con la contrattazione di secondo livello e modificare eventualmente le norme sulla base di esperienze positive già testate. La riforma Fornero, a conti fatti, non è intervenuta a modificare l’art.8, cogliendone probabilmente la preziosa valenza sperimentale. Le recenti restrizioni sulla flessibilità in entrata sembrano però spingere le Parti a rivalutare con attenzione l’opportunità di utilizzarlo.
Gli ambiti nei quali si potrebbe sperimentare, meglio e di più, questo modello di prossimità e sussidiarietà sono numerosi. Del resto, la sua applicazione potrebbe contribuire a una migliore revisione del funzionamento del mercato del lavoro: con l’art. 8, ad esempio, è possibile per le aziende regolare con le rappresentanze sindacali aziendali le materie relative “ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro”. Risulta quindi possibile, oltre che auspicabile, utilizzare queste forme contrattuali per migliorare la flessibilità in entrata.
Tuttavia, raramente i sindacati approfittano di questa grande opportunità, e questo soprattutto per quanto riguarda la somministrazione. Per capire il “perché” di un tale atteggiamento dobbiamo tenere presente che la rappresentanza sindacale dei lavoratori somministrati è gestita – e questo è un bene – da organizzazioni specifiche. Il fatto però che esse siano alternative alle organizzazioni di categoria fa sì che a livello di governance questi sindacati non prendano quasi mai in considerazione lo sviluppo lavorativo dei somministrati che operano nelle loro categorie professionali, dal momento che tendono a concepirli come appartenenti a un sindacato concorrente. Ecco perché tutto ciò che riguarda la somministrazione deve necessariamente essere deciso per legge, altrimenti diventa difficile trattarlo, successivamente, a livello di contrattazione aziendale.
Questo, purtroppo, è in netto contrasto con l’osservazione che più volte abbiamo sottolineato, secondo cui esiste – ed è riconosciuta anche dalle Parti sociali – una chiara priorità del lavoro di somministrazione come miglior forma contrattuale di flessibilità sicura, che, nel presente contesto, andrebbe normativamente ed economicamente incentivata in modo deciso.
Da questo punto di vista, riteniamo che potrebbe essere utile da parte delle forze sindacali considerare una revisione organizzativa, che ad esempio possa condurre alla realizzazione di una organizzazione a matrice, grazie alla quale i lavoratori somministrati da un lato facciano parte della specifica categoria della somministrazione, dall’altra appartengano, come tutti i lavoratori, ai sindacati di categoria in ragione del contenuto della loro missione.
Oggi più che mai diventa infatti fondamentale che le organizzazioni sindacali non si trovino nelle condizioni di dover, per motivi gestionali interni, rischiare di escludere la somministrazione – relegandola in un angolino buio delle relazioni industriali – ma possano piuttosto godere di una maggiore libertà, quando opportuno, nel proporla come strada maestra della flexicurity.