La polemica sulla necessità dei giovani di non essere schizzinosi nella ricerca del lavoro sta diventando interessante, perché sta rivelando molto della cultura italiana del lavoro. Questa impostazione non riguarda solo i giovani, ma tutti i lavoratori e costituisce un ostacolo importante alla costruzione di un Paese più giusto ed economicamente sano.



Questa cultura ha due limiti principali che come Forum della Meritocrazia dobbiamo assolutamente superare e chiarire: presuppone che il posto di lavoro, in senso giuridico, sia più importante della soddisfazione e della preparazione della persona che lo occupa e condiziona chi assume a sottovalutare la preparazione specifica e specialistica di chi si propone per un ruolo, come se chiunque potesse ricoprire un incarico. A nostro parere è più dannoso accettare un lavoro per cui si è sottoqualificati, sovraqualificati o poco motivati – con conseguente danno sia per la carriera professionale del lavoratore stesso sia per l’azienda – che rifiutare un incarico inadeguato.



Sebbene infatti siamo coscienti che l’istruzione e la formazione italiana abbiano alcune lacune e una scarsa aderenza ai problemi reali del mercato del lavoro, non possiamo non registrare che vi sia anche una straordinaria ignoranza degli attori del mercato nel cercare, valutare e incentivare il talento e la preparazione specialistica, oltre che nel riconoscere una visione sana del lavoro. Tendenzialmente chi critica ai giovani di essere “schizzinosi” di fronte al lavoro evidentemente non

Conosce le professionalità, il mercato e le esigenze delle aziende. Forse a malapena distingue tra lavori manuali e tecnici e lavori intellettuali, ma non certo tra un buono e un cattivo lavoro.



Per loro un giovane è un giovane. Un posto di lavoro è un posto di lavoro. Un guadagno di 1000 euro alla catena di montaggio o in un centro di ricerca sono la stessa cosa. Punto e Basta. Questa visione però genera un grave danno in tutta la vita professionale della persona e non solo in giovane età, perché crea confusione nella scelta del proprio mestiere. A maggior ragione in un mercato mutevole come quello attuale, che richiede la flessibilità di valutare diverse mansioni nel corso di una sola vita professionale.

Come Forum della Meritocrazia sosteniamo invece una filosofia radicalmente diversa. Ogni persona è unica, con un talento specifico in una materia particolare e con un obiettivo diverso. Non ha senso cercare un posto di lavoro, se non si ha chiaro quali attività comporti e se ci sia un’effettiva validità di quel ruolo sul mercato anche in futuro. Chi predica di “non essere schizzinosi” non è un buon maestro per i nostri giovani. Non mi riferisco al Ministro Fornero, che nel merito della questione, è stata criticata in modo ingeneroso e impreciso, ma ai tanti che stanno sostenendo questa visione miope e limitata.

Ai giovani chiediamo quindi di non ascoltare questi cattivi maestri, di non chiedere diritti, ma di pretendere meritocrazia, di essere valutati realmente per le loro competenze e per il loro potenziale, oltre che di ragionare sulle attività che voglio concretamente svolgere nel loro lavoro. I motivi per cui giovani e meno giovani non trovano il “lavoro dei sogni” sono, oltre al problema già discusso, un mercato che non cresce e che continua a basarsi sul corporativismo e aziende asfittiche, che non incentivano il cambiamento e il turnover. Solo all’ultimo posto e con un peso scarsamente rilevante restano alcuni problemi di inadeguatezza professionale, di scarsa motivazione dei giovani o legati al gap tra istruzione e mondo del lavoro.

Da questa consapevolezza si dovrebbe partire per passare all’abbandono delle attuali politiche di formazione teorica e di ammortizzatori sociali e tornare a una visione più ampia del lavoro e dell’individuo. In questo contesto culturale, vorrei condividere una riflessione specifica sullo stato della Pubblica amministrazione. Nonostante alcuni annunci tranquillizzanti in merito a segnali di ripresa o a possibili positivi sviluppi internazionali, la situazione del Paese resta preoccupante e prelude a inevitabili e pesanti sacrifici nel prossimo futuro. Questi sacrifici saranno sopportabili, ma profondamente ingiusti se non saranno accompagnati da una complessiva riorganizzazione del mondo del lavoro e delle professioni.

Le principali cause della situazione attuale sono una cattiva organizzazione e una bassa produttività del lavoro. Si pensi, per esempio, che le uniche aziende che hanno livelli di produttività in linea con i livelli nel Nord Europa sono quelle con meno di 9 addetti. Ciò deriva anche dal fatto che moltissime persone sono inadeguate alla mansione a loro affidata. In questo contesto, il lavoro nel settore pubblico, nelle università, nelle Pubbliche amministrazioni e nelle sanità rappresenta un nodo da sciogliere, già rimandato da 20 anni.

È chiaramente riconosciuto come il settore pubblico sia largamente inefficiente e statico. Il blocco del turnover impedisce di migliorare le organizzazioni pubbliche, che nella maggioranza dei casi non sono numericamente sovradimensionate per i loro fini istituzionali, ma hanno personale poco qualificato, mal retribuito, alcune volte in difetto e altre in eccesso, oltre che scarsamente motivato, anche per un rigido formalismo che rende la presa di responsabilità un rischio. Uno dei principali vincoli alla riorganizzazione del settore è dato dagli ostacoli al licenziamento o alla mobilità funzionale e/o geografica degli addetti, oltre che dall’oggettiva difficoltà a distinguere tra meritevoli e non.

Mi preme ricordare che la prima questione non riguarda solo moltissime persone con stipendi bassissimi per le loro responsabilità, ma anche manager e dirigenti inadeguati e sovraretribuiti e centinaia di migliaia di “raccomandati” dalla politica, assunti per motivi clientelari e di scambio. Premesso che sarebbe preferibile avere persone che siano in grado di ricollocarsi sul mercato autonomamente, invece di aspettare inermi la cassa integrazione o il reintegro, è necessario innanzitutto chiarire che i posti di lavoro ci sono e sono da ricavarsi principalmente da tre ambiti.

Il primo ambito sono le centinaia di migliaia di lavori “umili”, ma necessari e ben retribuiti, che vengono lasciati vacanti oggi anno per un mismatch tra domanda ed offerta di lavoro. Secondariamente si potrebbero trovare posti di lavoro da una rivoluzione complessiva che superi le mille inefficienze del sistema. Per fare un esempio banale, un manager che guadagni 1 milione di euro dovrebbe corrispondere a 20 quadri con retribuzioni oneste e con una sana organizzazione e divisione dei ruoli.

La questione lavoro in Italia richiede quindi fondamentalmente di risolvere la rigidità di organizzazioni, corporazioni e regole che consentono ad alcuni di beneficiarne con stipendi da capogiro e a molti altri di subirne gli svantaggi. Se è ampiamente riconosciuto che la regolazione rigida, statalista e corporativa del mercato del lavoro e dei mille ambiti professionali genera un danno ai cittadini e ai clienti in termini di tariffe, si dimentica come questo comporti anche un fenomeno di distruzione massiccia di posti di lavoro. Tramite una vera liberalizzazione dell’intero sistema del lavoro – non solo quello dipendente – e non un’impossibile estensione universale del diritto al lavoro a tutti, passa una vera riallocazione e professionalizzazione del lavoro e dei suoi benefici oltre alla creazione di servizi migliori e a miglior prezzo per i cittadini.

In terzo luogo, i posti di lavoro possono essere ricavati da un’industria di servizi alla persona che attualmente in Italia è fortemente carente e generalmente “subappaltata” al lavoro nero e straniero. Non ci illudiamo però. Il primo passo per spostare lavoro improduttivo o sovraretribuito a danno della collettività, è togliere molte persone dalla loro “zona di comfort”, in cui non hanno interesse a cercare alternative, ma solo a difendere il proprio “orticello”, pur rendendosi probabilmente conto che non potrà durare a lungo.

Il secondo passo sarà una rivoluzione organizzativa intelligentemente radicale, che utilizzi magari la leva fiscale, che abbandoni le politiche “parziali” degli ultimi 20 anni, a danno spesso dei soli dipendenti, e che ridisegni profondamente il sistema del lavoro in termini di competenze, riconoscimento del merito e del valore delle persone.

La via per la modernità del Paese e per il suo futuro passa da questa rivoluzione. È necessario spiegare a tutti che passare dall’attuale sistema del diritto al lavoro rigido e corporativo a un sistema del lavoro libero e legato al merito è un vantaggio per il Paese, soprattutto per i più deboli, e questo passa da una diversa visione culturale del lavoro che consideri le differenze tra i lavori e tra le persone e che garantisca la giusta dignità e il giusto merito al lavoro.