Nessuno meglio di Reinhard Mueller, notista politico della Frankfurter Allgemeine Zeitung, poteva illustrare la posizione del governo tedesco sulla proposta di introdurre quote rosa a livello europeo, avanzata da Viviane Reding. Non è un caso che la FAZ sia considerato il foglio più vicino alle posizioni della cancelliera Merkel e del suo partito: Mueller riecheggia testualmente le dichiarazioni di Merkel, sostenendo che il problema della scarsa rappresentanza femminile all’interno dei consigli di amministrazione non può diventare l’ennesima occasione per affermare l’ormai dilagante onnicompetenza della Ue. Al contrario, sono i singoli stati membri a dover trovare il modo di conciliare gli interessi familiari e professionali. Su questo come su altri temi, conclude Mueller, l’ingerenza europea rappresenta anzi la causa principale della crisi di fiducia che l’Europa sta vivendo, alla base della stessa crisi del debito.



In realtà, da un punto di vista squisitamente liberale si potrebbe dire ancora di più: non sono gli stati, ma la società civile e le famiglie a essere competenti sulla questione. Come ricorda Mueller stesso, ci sono “numerose madri di famiglia bloccate in posti inadeguati alle loro effettive qualità dai loro datori di lavoro”, ma anche “dai loro stessi mariti”. Qual è la soluzione a un simile blocco? L’idea che possa semplicemente arrivare dall’alto, magari attraverso una misura legislativa, non è solo illusoria, ma sbagliata.



È ormai riconosciuto che sulla resistenza del “soffitto di cristallo” influisca in misura molto maggiore l’assenza di donne a livello del cosiddetto “middle management” che la loro scarsità nei consigli di amministrazione. Nei quali, peraltro, le nuove componenti femminili figurerebbero solo tra i membri non esecutivi, giustificando la definizione di “vicarie aggiunte” che ne dà Mueller.

Letta in questa chiave, la direttiva europea somiglia fin troppo a una maniera di mettere a posto la coscienza dei tanti uomini che hanno relegato le donne in posizione subalterna. Ma le singole direttive nazionali, dal canto loro, non sembrano migliori: la cooptazione delle donne nei consigli di amministrazione si è molto spesso tradotta, più in concreto, in quella delle mogli o delle figlie, finendo per esaltare e perpetuare lo stesso potere che le aveva finora escluse. Una vittoria ideologica, più che ideale.



La questione della presenza femminile in posizioni dirigenziali finirà sperabilmente per risolversi all’insegna del buon senso, entro pochi anni. Ma non per questo bisogna smettere di interrogarsi sul tipo di ideologia e di potere che hanno sostenuto la battaglia sulle quote rosa: un’ideologia solo apparentemente schierata con le donne, che dietro la bandiera della parità di opportunità nasconde l’esaltazione di un modello maschile di vita e di lavoro, la cancellazione di ogni differenza in favore dell’uniformazione a questo modello.

Questa stessa ideologia sta facendo strazio del buon senso nella stessa Europa, dove sorgono scuole come l’asilo svedese “Egalia”, che ha abolito nomi e pronomi di genere tra i piccoli ospiti, o dove un papà tedesco decide di indossare pubblicamente la gonna per incoraggiare il figlio di cinque anni a farlo a dispetto delle canzonature (quelle che fino a poco tempo fa avremmo definito “la voce dell’innocenza”).

L’unico possibile antidoto a questa deriva è la libertà: la libertà che, per dirla con Mueller, conta più della parità. Non la libertà degli stati, tuttavia, ma quella della società, della famiglia, della persona.