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Tempi allungati per raggiungere l’ormai agognata meta della pensione, perdurante crisi economica e dell’occupazione, crescente necessità da parte delle aziende di efficaci strumenti di flessibilità, tanto in entrata quanto in uscita. Così si presenta, in realtà, il contesto in cui persone e imprese si trovano oggi ad agire, malgrado il discutibile ottimismo con cui periodicamente i vari commentatori cercano di edulcorarci il quadro della situazione.
In una tale, complessa, situazione, da una parte gli spazi per posti di lavoro in grado di perdurare nel tempo diminuiscono, dall’altra le carriere lavorative delle persone, paradossalmente, si allungano. E tutto questo è dovuto anche alla scarsità di risorse pubbliche, che purtroppo non sono sufficienti per coprire le necessità in essere, spostando, di fatto, la priorità nell’utilizzo delle risorse dalla consueta e inefficace logica di puro sostegno assistenzialistico al reddito, all’esigenza di costruire una maggiore occupabilità delle persone.
Certo, nell’attuale contesto economico risulta decisivo anche valorizzare il lavoro breve, a maggior ragione se tutelato da parti terze competenti. In questo frangente storico, infatti, se da un lato non possiamo derogare alla necessità di garantire al lavoratore la pienezza del diritto con forme contrattuali che lo tutelino pienamente, dall’altra è però altrettanto fondamentale essere più flessibili circa l’utilizzo di quelle forme che consentono la maggiore occupazione possibile alle persone, favorendo parimenti la possibilità da parte delle aziende di gestire al meglio i cicli produttivi e di mercato.
Se cresce dunque l’esigenza di costruire una maggiore employability per le persone, ciò impatta fortemente sulla necessità che i vari player coinvolti contribuiscano con decisione a questo compito, investendo risorse nella creazione di competenze, metodi e tecnologie capaci di supportare lo sviluppo professionale e i percorsi di carriera di chiunque: questo, a nostro avviso, è infatti il principale e decisivo oggetto delle politiche attive del lavoro.
In che modo, quindi, diffondere in maniera rapida e territorialmente capillare tali opportunità, decisive sia per i lavoratori che per le imprese?
Innanzitutto – e può sembrare paradossale – facendo in modo che la crescente necessità di flessibilità in uscita da parte delle aziende sia collegata all’obbligo (o alla forte incentivazione) che le aziende si prendano carico della ricollocazione dei lavoratori esodati, attraverso il valido supporto che può venire da soggetti professionali qualificati.
In second’ordine, convogliando le sempre più scarse risorse pubbliche che Stato e Regioni possono destinare al mercato del lavoro in investimenti che vadano in questa direzione. Ma come renderle massimamente efficaci? Anzitutto finanziando la domanda di servizi – rivolgendosi dunque direttamente alle persone – e non l’offerta delle imprese erogatrici dei servizi, e, ancora, selezionando solo quei soggetti che siano in grado di produrre effettivo valore aggiunto attraverso il sistema dell’accreditamento e del monitoraggio pubblico dell’efficacia ottenuta, remunerando i servizi di ricollocazione prestati solo ad esito positivo raggiunto.
Da questo punto di vista, va sottolineato come l’effettiva programmazione delle misure, dei servizi e del loro monitoraggio richieda la disponibilità di dati dettagliati e di merito, che la Pubblica amministrazione deve poter mettere a disposizione e che i privati sono chiamati ad incrementare. E’ dunque assolutamente necessario che venga rafforzata la governance unitaria del sistema dei servizi in modo tale che, pur tenendo conto delle differenze territoriali e di mercato, possa garantire la piena operatività per tutti quei soggetti che la legge intende autorizzare alla gestione dei servizi per il lavoro e delle politiche attive.
E’ dunque auspicabile che il Governo si decida davvero a orientare tutti gli attori in gioco verso lo sviluppo delle politiche attive del lavoro, sempre più indispensabili per la sana crescita di imprese e persone nel nostro Paese.