La Corte d’Appello di Roma ha deliberato il 22 giugno scorso in favore della Fiom, costringendo dunque il gruppo Fiat ad assumere presso lo stabilimento di Pomigliano tanti iscritti al sindacato metalmeccanici della Cgil quanti erano in percentuale nella vecchia azienda, vale a dire il 9% del totale, 145 operai. I primi a tornare in fabbrica sono i 19 operai di cui tanto si sta parlando in questi giorni, mentre altri 126 dovranno essere riassunti nei prossimi mesi. La recente ordinanza, spiega a IlSussidiario.net il professor Antonio Pileggi, ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Roma Tor Vergata, «ha confermato, tranne che per un paio di aspetti, la motivatissima ordinanza di primo grado del Tribunale di Roma del precedente 21 giugno (cui va senz’altro il merito di avere perfettamente arato l’accidentatissimo terreno) e ha fatto rigorosa, scrupolosa, corretta, equilibrata applicazione dei principi antidiscriminatori recepiti dall’ordinamento nazionale in attuazione del diritto comunitario».
Non è una decisione ideologica?
No. È una decisione tecnica, per quanto senza precedenti. Non certo da pretori d’assalto rimasti a combattere nella giungla, ignari della fine della guerra e dell’avvento dell’era della globalizzazione. Del resto, è da un pezzo che sono finiti quei tempi. Il clima nelle aule di giustizia è cambiato. Vedo più giudici di trincea che giudici d’assalto. Percepisco una certa tendenza al “rigettismo” e avverto, a volte, una certa preconcetta diffidenza nei confronti delle cause di lavoro e di chi le propone, che non mi sembra coerente con la fisiologica, genetica, “diffidenza” del diritto del lavoro verso la parte forte del rapporto di lavoro. Ecco. Le ordinanze del Tribunale e della Corte d’Appello di Roma hanno il merito di riconciliarti con il diritto del lavoro, e con i suoi valori fondanti.
Dunque i giudici hanno accertato che c’è stata la discriminazione?
I giudici hanno doverosamente applicato la specifica norma in base alla quale quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione (per la cronaca, art. 28, comma 4, D.lgs. 150/2011).
E che dati di carattere statistico ha fornito la Fiom?
La consistenza dell’organico dello stabilimento di Pomigliano al gennaio/luglio del 2011 (4367 dipendenti); il numero di assunti da Fabrica Italia provenienti dal bacino di Pomigliano al giugno 2012 (1893); il numero degli iscritti a Fiom al gennaio 2011 (382); nessun lavoratore iscritto alla Fiom assunto da Fabrica Italia al momento della presentazione del ricorso. I dati in questione sono stati sottoposti a una simulazione statistica da parte di un riconosciuto esperto della materia (consulente di parte) che ha dimostrato che in una selezione casuale le probabilità che nessuno degli iscritti alla Fiom fosse selezionato per l’assunzione ammontano a una su dieci milioni.
E la Fiat non ha fornito la prova dell’insussistenza della discriminazione?
I giudici romani hanno esaminato con estremo scrupolo tutti gli argomenti con cui la Fiat ha tentato di provare l’insussistenza della discriminazione, dimostrandone l’inconsistenza a fronte di quel macroscopico dato statistico. Basta leggere l’ordinanza, misurata anche nei toni, per capire come siano andate le cose: gli iscritti alla Fiom sono stati scientificamente esclusi dalle assunzioni perché – come si legge addirittura nello stesso ricorso in appello della Fiat – “per il contesto in cui l’attività lavorativa viene espletata la convinzione personale attinente l’accettazione delle regole contenute nel contratto di Pomigliano e nel CCSL concordato con FIP costituisce un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa”. Del resto, nel reagire all’ordinanza, l’Azienda, nel primo dei due comunicati del 2 novembre scorso, dopo avere lasciato intendere che l’ottemperanza all’ordinanza dei giudici romani non è affatto scontata, ha recitato per quei 19 lavoratori il de profundis.
In che senso?
Ha infatti scritto: “È importante ricordare le dure prese di posizione e le pesanti dichiarazioni con le quali i 19 ricorrenti hanno manifestato fin dall’inizio il loro giudizio negativo sull’operazione Nuova Panda. Stupisce e induce qualche dubbio il fatto che questi storici oppositori pretendano oggi il passaggio in FIP, utilizzando una sentenza che non tiene nella minima considerazione le conseguenze sull’iniziativa industriale di Pomigliano, per la quale sono stati investiti 800 milioni di euro e che oggi sta dando lavoro complessivamente a circa 3000 persone”. Dopo sette minuti il comunicato è stato ritirato e sostituito da un nuovo comunicato depurato dalla frase sopra riportata. Ma di ciò che l’Azienda pensa veramente, del criterio in base al quale ha agito, e intende agire in futuro, è ormai rimasta indelebile traccia. La cancellazione della frase evidenzia solo che la Fiat è consapevole del fatto che ciò che pensa, e intende fare, è inconfessabile.
Ma l’obbligo di assumere per ordine del giudice 19 dipendenti, nominativamente individuati, entro 90 giorni, e altri 126 da individuare tra i discriminati, entro 180 giorni, non va contro la libertà d’impresa costituzionalmente garantita?
Anche su questo punto i giudici di Roma hanno ben motivato, richiamando il principio costituzionale secondo cui il potere d’iniziativa economica dell’imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento e non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. I giudici romani hanno equilibratamente applicato il principio di effettività della tutela processuale in materia antidiscriminatoria. È la legge a prevedere che con l’ordinanza che definisce il giudizio il giudice possa ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti e possa ordinare l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Oltretutto, i giudici hanno mostrato equilibrio anche nel tenere conto delle defezioni dalla Fiom agli effetti del ripristino dell’equilibrio: dovrà essere cioè ripristinato il rapporto percentuale tra gli iscritti alla Fiom e il totale dei dipendenti occupati nello stabilimento di Pomigliano al momento della proposizione del ricorso e non nel momento in cui Fabbrica Italia è partita (quando gli iscritti alla Fiom erano molti di più).
Esponenti degli altri sindacati hanno però affermato che la reazione della Fiat all’ordinanza del Tribunale di Roma “è la conseguenza di chi pensa di fare relazioni sindacali nelle aule di Tribunale”.
Mi sarei aspettato solidarietà ai lavoratori discriminati, non a Marchionne, com’è avvenuto nei primissimi (ma per questo significativi) commenti a caldo degli esponenti dei sindacati non discriminati. E mi sarei aspettato maggiore rispetto per i provvedimenti della magistratura. Non entro nel merito se fosse irragionevole, o addirittura suicida, il rifiuto, da parte della Fiom, di sottoscrivere gli accordi sindacali di giugno 2010 sull’investimento di Pomigliano e sulla produzione della nuova Panda. Ma a fronte della mancata assunzione degli iscritti alla Fiom che non avessero strappato la tessera della fame (perché se non lo facevi non venivi assunto) era del tutto ragionevole attendersi che la Fiom percorresse la via giudiziaria. E cos’altro avrebbe dovuto fare? Che “relazioni sindacali” avrebbe potuto intrattenere una volta scomparsi tutti gli iscritti alla Fiom dallo stabilimento di Pomigliano? Il ricorso allo strumento giudiziario da parte del sindacato può servire proprio per evitare devastanti conflitti extragiudiziari, come ha osservato la Corte costituzionale già nel lontano 1974 a proposito del procedimento di repressione della condotta antisindacale.
Ci rinfresca la memoria?
La Consulta diceva allora: “Il legislatore ha inteso apprestare mezzi procedurali allo scopo di dar rilievo giuridico a quel movimento evolutivo, già largamente attuato in altre nazioni, per cui le divergenze di interessi fra datori di lavoro e lavoratori, in luogo di svolgersi sul piano extragiuridico e del contrasto extragiudiziale con mezzi diretti di autodifesa e di offesa quali scioperi, astensioni dal lavoro, occupazioni, serrate, licenziamenti, ecc., tendano spontaneamente sempre più a condursi entro l’ambito del diritto dello Stato e siano composte e regolate dinanzi agli organi giurisdizionali di questo”). Certo, se poi non si riesce a trovare una soluzione conciliativa davanti ai giudici (che mi risulta essere stata suggerita dalla Corte d’Appello di Roma) e si polemizza contro i provvedimenti dei giudici, la tensione dilaga. Vorrei ricordare che è stato lo stesso Professor Ichino, nel rappresentare il punto di vista aziendale con tutta la carica dell’autorevolezza riconosciutagli, e nell’esprimere scetticismo verso la denunciata discriminazione, a suggerire alla Fiom il ricorso alla via giudiziaria, sia pure con tono di sfida.
Perché cosa ha detto il Professor Ichino?
Glielo leggo, non oso parafrasare: “C’è la versione aziendale che nega la discriminazione, sostenendo che, semplicemente, gli ex-iscritti alla Fiom assunti nel nuovo stabilimento non si iscrivono più al loro vecchio sindacato La spiegazione plausibile, perché se fosse per la Fiom, la nuova fabbrica non sarebbe mai nata”, concedeva alla Fiom il beneficio del dubbio. Però, certo, può essere che le cose non stiano così. C’è un modo per verificarlo: il procedimento d’urgenza previsto dalla legge n. 125/1991, che consente al lavoratore di denunciare la discriminazione limitandosi a mostrare l’indizio statistico (com’è che, con tutti i ricorsi promossi dalla Fiom, di questo non si è vista traccia?)”. Ebbene, di quel ricorso s’è poi vista traccia, con l’esito che tutti sappiamo. Ichino, però, s’è astenuto dal commentare il provvedimento di primo grado del 21 giugno 2011 (“Non ho seguito il giudizio da vicino e non ne conosco gli atti; non posso dunque esprimere alcuna opinione sul punto se la realtà storica corrisponda di più a quanto mi disse il capo-stabilimento, oppure a quanto dice questa sentenza. Per questo c’è il giudizio d’appello”). Ora che c’è stato anche il giudizio d’appello attendiamo fiduciosi un suo commento.
Ci parla ora della reazione della Fiat, di questa intenzione di mettere 19 lavoratori in mobilità. Le sembra legittima?
La Fiat – reagendo con cieco e un po’ infantile furore – nel primissimo comunicato ha voluto far pesare come un macigno sulla coscienza dei giudici di Roma la responsabilità di avere provocato il sacrificio di 19 lavoratori “buoni” scelti tra quelli “che hanno condiviso il progetto e, con grande entusiasmo e spirito di collaborazione, sono stati protagonisti del lancio della Nuova Panda”, per far posto ai 19 lavoratori cattivi “reintegrati” dai giudici di Roma, che sono invece “storici oppositori” al progetto. L’azienda, però, nell’accordo di giugno 2010, s‘è impegnata ad “assicurare la saturazione dell’attuale manodopera dello stabilimento”, e, dunque, ad assumere, richiamandoli dalla Cigs, tutti i lavoratori (ne mancano all’appello altri 2220). Dubito allora che – dovendo ancora adempiere compiutamente a quell’obbligo – possa procedere al licenziamento di 19 lavoratori già assunti. Prima di intimare i licenziamenti dovrebbe poi attuare la procedura prevista per i licenziamenti collettivi dalla legge n. 223 del 1991.
Cosa comporta questa in particolare?
In difetto di accordo sindacale (poco probabile in un caso come questo), dura almeno 70 giorni tra fase sindacale e fase amministrativa. Nella comunicazione di avvio della procedura (che non ho ancora letto e non so nemmeno se sia stata inviata ai sindacati) l’azienda dovrebbe indicare le ragioni che determinano l’eccedenza di personale, e cioè che l’eccedenza di personale è determinata dall’ordinanza della Corte d’Appello di Roma (e dubito che altri giudici, chiamati a giudicare della legittimità dei licenziamenti, o dell’antisindacalità della condotta, la prenderebbero bene), e a indicare i motivi per cui ritenga di non poter evitare i licenziamenti ricorrendo a misure alternative (e dubito che possano essere ritenuti sussistenti motivi del genere, e che non sia possibile adottare misure alternative ai licenziamenti). E infatti, l’azienda, nella nota del 2 novembre 2012, melius re perpensa, sembra avere innestato la retromarcia, prendendo tempo sulla procedura di mobilità.
Come sarebbe, non verranno più intimati i diciannove licenziamenti?
Non lo so. Ma in quella nota a me pare che l’azienda, anziché licenziare altri 19 dipendenti già assunti, sia intenzionata a non assumere i 19 iscritti alla Fiom che sarebbe obbligata ad assumere in forza dell’ordinanza della Corte d’Appello di Roma. Leggo infatti nella nota che “i 19 ricorrenti sono titolari di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con Fiat Group Automobiles, che non si è mai interrotto, e attualmente fruiscono come altri più di 1000 dipendenti del comprensorio di trattamento di cassa integrazione, oggetto di specifico accordo sindacale firmato il 6 luglio 2011. Il rientro al lavoro di questi lavoratori, con passaggio alla società FIP, è unicamente condizionato dalla domanda del mercato dell’auto italiano ed europeo, attualmente molto al di sotto delle previsioni”. Insomma, il rientro dei 19 lavoratori non dipenderebbe dall’ordinanza della Corte d’Appello di Roma, ma sarebbe “unicamente condizionato” alla domanda di mercato che, attualmente, non consentirebbe quel rientro. Mi sembra una posizione pericolosa, anche perché “chiunque elude l’esecuzione di provvedimenti, diversi dalla condanna al risarcimento del danno, resi dal giudice nelle controversie in materia antidiscriminatoria previste dal presente articolo è punito ai sensi dell’articolo 388, primo comma, del codice penale”.
Il Ministro Passera ha detto che non gli piace la mossa di Marchionne.
E cosa gli costava dirlo? Non ha detto che Marchionne ha sbagliato, che ha commesso un illecito. Ha detto “a me non piace”, come se fosse una questione di gusti personali. È come dire, senza controprova, che lui, Passera, non lo avrebbe fatto, liberissimo Marchionne di farlo, perché la Fiat è “un’azienda libera e se la vedono al loro interno“. Una posizione ambigua, pilatesca, ipocrita. Se è per questo a me non sono affatto piaciuti i licenziamenti, a centinaia, intimati dal Passera banchiere ai propri bancari anziani, per costringere decine di migliaia di altri anziani all’esodo anticipato, per mere ragioni di profitto e di arricchimento personale. Più netta è stata la posizione del Ministro Fornero, che, almeno, ha invitato la Fiat a ritirare i licenziamenti collettivi: quei licenziamenti collettivi che, però, con la riforma che porta il suo nome, ha sostanzialmente liberalizzato e incentivato.
E la Fiat lo farà?
Non lo so. Vedo prevalere i falchi, pur se l’atteggiamento degli ultimi giorni è ondivago. Ho come l’impressione che l’azienda non si sottragga allo scontro, lo provochi, in un certo senso, e voglia tirare la corda, quasi volesse dimostrare che gli investimenti della Fiat in Italia sono incompatibili con il diritto del lavoro e i giudici del lavoro italiani.