Rispetto al provvedimento che obbliga Fiat a riassumere 19 operai della Fiom-Cgil, e in prospettiva altri 126 con la stessa tessera sindacale, i soliti ben pensanti dell’informazione più radical chic dell’Occidente non si sono minimamente discostati dalla narrativa della “rappresaglia” del padrone contro gli operai. Solo l’economista Carlo Dell’Aringa su Il Sole 24 Ore, che ha criticato le prove di forza sia di Fiat, sia di Fiom e ha definito l’ennesimo intervento giudiziario come un rimedio che non rientra più nel “fisiologico utilizzo delle relazioni industriali”, e il giuslavorista e Senatore del Pd Pietro Ichino, che in un’intervista a Il Foglio ha definito “inappropriato” l’intervento del giudice (“il diritto italiano consente questo provvedimento, ma in qualsiasi altro Paese occidentale non sarebbe andata così”) hanno avuto il coraggio di rompere un coro unanime noioso e molto poco lungimirante.



La vicenda Fiat continua a essere impropriamente presentata all’opinione pubblica – ma in questo anche la Magistratura ha i suoi meriti – come un duello rusticano tra Sergio Marchionne e la Fiom, il sindacato che non ha accettato l’accordo collettivo. In realtà, dentro questa vicenda ci sono una serie di questioni, e in particolare una, che troveremo in maniera sempre più ricorrente in Italia. Ovvero: in un’epoca contrassegnata da una parte dalla morsa della crisi e dall’altra da una progressiva e sempre più forte apertura internazionale dell’economia per cui il baricentro dello sviluppo non è più l’Occidente, l’Europa o l’Italia, come fare ad attrarre gli investimenti sufficienti a mantenere le opportunità occupazionali?



L’Europa ci dice che una società è socialmente ed economicamente in equilibrio, secondo gli standard, quando ha almeno il 70% di popolazione in grado di lavorare effettivamente occupata (secondo la Strategia europea per l’occupazione). Alcuni paesi europei, nonostante la crisi, sono su questi obiettivi, ma il nostro ne è molto lontano (56,9% dato Istat 31 di ottobre), anche per il più alto tasso di lavoro sommerso. Quindi come fare in modo che lo sviluppo e gli investimenti tornino nel nostro Paese e determinino la possibilità di salvaguardare l’occupazione e di incrementarla, in modo da raggiungere gli obiettivi di equilibrio, è il tema di questi anni. Diciamo che è il compito per le istituzioni, per i governi, per le forze economiche e imprenditoriali, e – naturalmente e soprattutto – per le forze sociali. È il compito di tutti, non ne sono esenti magistrati e giornalisti benpensanti: anche loro fanno parte della coscienza sociale.



La crisi nel settore auto è forse ancora più forte di quella economica in generale. La contrazione delle vendite ha portato il mercato italiano ai livelli degli anni ‘70, ma è tutta l’Europa a soffrire. Di fronte a questo scenario si potrebbe pensare di agire così come stanno facendo la maggior parte delle aziende automobilistiche europee, vale a dire con un taglio del personale. Marchionne ha confermato che, nonostante la crisi, i livelli produttivi italiani torneranno a crescere grazie all’export. Un obiettivo difficile da raggiungere, ma importante, soprattutto in questo periodo di forte recessione economica.

In questo contesto economico bisogna inquadrare il caso Fiat e quanto successo con l’obbligo di reintegro dei dipendenti Fiom. La vicenda rappresenta uno di questi passaggi che si dovranno fare in questi anni, come e a quali condizioni è possibile investire su nuovi prodotti, su nuovi processi, su nuove quantità produttive, e questo chiede di riallineare, soprattutto in un’industria molto organizzata, le condizioni di lavoro in maniera omogenea rispetto ad alcuni parametri e, soprattutto, rispetto alla produttività, unita ad altri aspetti come la qualità, l’innovazione e la sostenibilità del lavoro stesso.

Ora, nonostante un accordo, nonostante una firma di una parte maggioritaria del sindacato, nonostante un referendum aperto a tutti i lavoratori, se l’accordo lascia libera un’organizzazione di fare tutto quello che ritiene per la non applicazione del medesimo, questa situazione genera una patologia. Questo è ciò che è si è verificato col caso Fiat.

In base a una norma che sta scolpita nei testi sacri del diritto del lavoro e che è generalmente valutata come una legge che aiuta l’attività sindacale, ai fini della gestione dell’accordo, così a Pomigliano come a Mirafiori, avrebbero dovuto avere voce in capitolo le organizzazioni firmatarie di quel contratto collettivo. Questo non è nella mente malata di Marchionne, ma nell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori. Ed è normale che sia così: ciò definisce la natura stessa del sindacato, perché esso esiste e rappresenta in quanto vede chiudersi un contratto; diversamente sarebbe esattamente uguale a un movimento politico, o d un partito laburista che fa del lavoro la sua missione.

La sentenza in questione è solo l’ultimo episodio di un conflitto lungo due anni: Fabbrica Italia Pomigliano (Fip), cioè la newco che nel 2010 ha sostituito giuridicamente lo stabilimento Giambattista Vico dopo la firma del contratto aziendale e che ha riassunto poco più della metà dei lavoratori del vecchio stabilimento, dovrà assumere nel giro di sei mesi 145 lavoratori selezionati tra gli iscritti Fiom, così da rispettare le vecchie proporzioni di appartenenza sindacale.

Perché? Ma l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori vale o non vale?

A questa domanda, l’intricato caso Fiat pare dare una risposta negativa. La Fiat a questo punto non fa che rendere evidenti le conseguenze negative di un intervento giudiziario adottato a favore di una parte dei lavoratori, ovvero il costo che ne consegue per altri. Come si diceva prima, l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori ammette che in fabbrica siano riconosciuti soltanto i sindacati firmatari del contratto collettivo applicato in azienda, quando quest’ultimo è accettato dalla maggioranza dei lavoratori. Marchionne vuole che si rispetti quest’idea, la cultura italiana lo respinge. La Fiom ha attaccato Marchionne sin dalla primavera 2010, sulla base di un principio che con la firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno (quindi solo un anno dopo) la stessa Cgil avrebbe riconosciuto come sbagliato: quello della rigida e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale.

Con l’accordo interconfederale del 2011, siglato da tutti i sindacati e da Confindustria, logica e buon senso avrebbero voluto che la Fiom rinunciasse alla sua battaglia giudiziaria contro la Fiat, firmando gli accordi aziendali e ottenendo così il riconoscimento dei propri rappresentanti negli stabilimenti. Il risultato di tutto questo è che Marchionne non ha il diritto di non volere in fabbrica chi non firma gli accordi aziendali.

Pietro Ichino sostiene che “di fronte a un caso come questo, in qualsiasi altro Paese il giudice avrebbe adottato la sanzione più appropriata, che è quella del risarcimento del danno”. Precisiamo che qui che non si tratta di persone licenziate illegittimamente, che vengono reintegrate nel posto di lavoro, ma di condanna dell’impresa alla costituzione ex novo di 19 rapporti di lavoro.

Ora, la costituzione coattiva di un numero elevato di rapporti di lavoro (potrebbero infatti seguirne altri 126) apre le porte a una procedura di licenziamento collettivo: non è ragionevole pensare che un’impresa mantenga in organico 145 persone in eccesso, tanto meno in un periodo di crisi. In buona sostanza, l’interventismo giudiziario non aiuta. Il risultato è quello di indebolire un’intera impresa e di sollevare anche gli altri sindacati contro di essa (è stato chiesto all’Unione Industriale di Torino, da parte degli altri sindacati, il ritiro della procedura di mobilità aperta per i 19 lavoratori di Pomigliano). E di contribuire a tenere sempre più lontani dal nostro Paese gli investitori stranieri.

Leggi anche

POMIGLIANO 10 ANNI DOPO/ Il contratto buono anche per Landini e ConfindustriaFCA & SINDACATI/ In vista un altro contratto senza FiomFCA E SINDACATI/ La mossa della Fiom per tornare al tavolo con l'azienda