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Il dibattito in corso tra le Parti sociali e le varie ipotesi di intervento che trapelano da parte del Governo – quali, ad esempio, quelle di agire sul cuneo fiscale o di premiare la produttività del lavoratore – costituiscono una preziosa occasione per riflettere su come un sano sviluppo del mercato del lavoro possa contribuire a una significativa ed equa ripartenza economica.



Può certamente sembrare paradossale che si discuta di queste tematiche nel periodo immediatamente successivo al varo della riforma del lavoro, ma d’altro canto, come già più volte sottolineato, la riforma ha intrapreso una direzione giusta, ma non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo. In tal modo, però, si rischia di limitare le vecchie soluzioni senza giungere a indicare positivamente l’esistenza di strade e strumenti innovativi e più adeguati.



Da questo punto di vista, possiamo osservare che l’aver reso più flessibili in uscita i contratti a tempo indeterminato – conferendo loro una maggiore centralità – , aver limitato l’abuso di strumenti usati per gestire la flessibilità in entrata, aver limitato la reiterazione dei contratti a termine privilegiando a questo scopo la somministrazione, aver indicato come supporto al lavoratore licenziato l’utilità delle politiche attive e aver, infine, riformato il sistema degli ammortizzatori passivi, ha indubbiamente fatto evolvere il mercato del lavoro verso un potenziale miglior funzionamento.



Purtroppo, tuttavia, il passo compiuto è stato fin troppo misurato, talvolta un po’ incerto, quasi mai proposto positivamente sino in fondo. L’unica eccezione è costituita dall’esplicita indicazione dell’apprendistato come strada maestra per l’inserimento lavorativo dei giovani. Cosa occorre dunque fare a questo punto?

Sicuramente non si può tornare precipitosamente sui propri passi, come fossimo legati a un elastico, a seguito di una qualche spinta reazionaria. Al contrario, diventa fondamentale l’indicazione chiara circa le strade da perseguire, mirando a una flessibilità in uscita meno interpretabile, così come è importante una chiara incentivazione, quantomeno normativa, del contratto di somministrazione per gestire la flessibilità in entrata; infine, è utile introdurre meccanismi premianti per l’uso delle politiche attive e incentivi economici per l’utilizzo dell’apprendistato.

Strade, queste, – è bene ricordarlo – che già oggi possono però essere parzialmente esplorate e percorse attraverso la contrattazione aziendale di secondo livello, senza attendere nuove indicazioni governative o un nuovo impulso proveniente dalle Parti sociali.

Altro tema da affrontare è, certamente, quello dell’enorme carico fiscale che grava sul costo del lavoro. Da un lato, infatti, esso penalizza pesantemente il reddito dei lavoratori, il loro stile di vita, il loro benessere, la loro sicurezza e l’orientamento ai consumi. Dall’altra, ahimè, finisce per rendere le nostre aziende poco competitive nel panorama internazionale. Pur consapevoli del fatto che “la torta” è quella che è, dobbiamo renderci conto che, proprio per farla crescere nuovamente, è necessario creare maggiori possibilità di sviluppo a beneficio delle persone che lavorano e delle aziende che creano buona occupazione per il bene di tutti. Occorre, dunque, riformare ulteriormente il mercato del lavoro, percorrendo con maggiore determinazione le strade sopra indicate.

Per realizzare tutto ciò, è evidente che i piccoli incentivi economici e fiscali non sarebbero sufficienti e, in ogni caso, ci lascerebbero comunque in mezzo al guado, rischiando di risultare inutilmente costosi oltre che gravemente inefficaci.

In conclusione, non ci resta che auspicare che il Governo, quello attualmente in carica così come il futuro, abbia davvero il coraggio di assumere decisioni più nette e di correre il rischio di indicare come positive, senza mezzi termini, quelle strade – e ci sono – che risultano autenticamente capaci di generare nuovo sviluppo per lavoratori e imprese.

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