Sembrava rientrato, come pericolo imminente, dopo le tante denunce dell’ottobre scorso. Invece l’indiscrezione ha ripreso a circolare in questi giorni a livello europeo: parlo dell’ipotesi di cancellare definitivamente Erasmus. L’unica vera esperienza di integrazione europea che, lo possiamo dire, ha funzionato in questi anni.
Attiva dal 1987, l’esperienza di Erasmus ha consentito sinora a tre milioni di studenti di ogni parte d’Europa di andare a studiare in uno dei Paesi dell’Ue, in presenza, comunque, di una modesta sovvenzione, circa 250 euro al mese. Un periodo di studio in un’università estera, con riconoscimento degli esami sostenuti. Un primo assaggio in vista della equipollenza dei titoli di studio, secondo il modello Eqf.
Un successo, dunque, l’Erasmus. Nato su iniziativa di un’associazione studentesca, l’Aegee, con proposta all’allora presidente francese Mitterand di promozione di questa iniziativa a livello comunitario. Da allora l’esperienza è entrata nella vita quotidiana di una generazione attraverso la vita vissuta assieme a tanti altri ragazzi provenienti da ogni parte d’Europa, la condivisione, per qualche mese, di un percorso di studio accademico.
Tutti abbiamo conosciuto giovani italiani che hanno studiato, ad esempio, in Inghilterra, imparato poi un’altra lingua, insegnato la nostra cucina. Una bella opportunità, dunque, che ha contribuito negli anni a forgiare il vero spirito europeo, proprio di una “società aperta” e solidale, nei termini delle “pari opportunità”. Oltre i vincoli tradizionali delle frontiere nazionali, oltre le culture autocratiche e localistiche.
Quanto è costato sino a oggi l’Erasmus alle casse dell’Ue? È costato 4,1 miliardi di euro. Meno, lo possiamo dire, della cifra prevista per la copertura degli errori di pagamento di bilancio che nel 2011 hanno comportato la cifra di 4,9 miliardi di euro. Il bilancio comunitario, lo ricordiamo, è stato di recente ridiscusso dai leader europei per ridisegnare il nuovo riparto dei prossimi sei anni. Le decisioni sono state rimandate al prossimo mese, in attesa di qualche lume mediatore. Le cifre che circolano per i nuovi riparti sono davvero consistenti. Penso qui, ad esempio, ai 420 miliardi per l’agricoltura e ai 300 “per la coesione, per la crescita e l’occupazione”.
In questi sei anni per la coesione, la crescita e l’occupazione sono stati spesi 350 miliardi. Ma osservando la situazione odierna, cioè la vicenda greca per la coesione, una crisi che ha portato alla recessione e ad alti tassi di disoccupazione, viene spontaneo chiedersi che efficacia abbiano avuto queste ingenti risorse. I 25 milioni di disoccupati forse avrebbero qualcosa da ridire. Oltre a questi fondi, abbiamo 58 miliardi di euro per “l’Europa, attore globale”. Una voce un po’ strana, vista l’assenza di una politica unica europea nell’attuale scenario globale. Le spese amministrative della stessa Ue ci costano, infine, 56 miliardi di euro. Non poco.
Si tratta di un bilancio strutturato attraverso una complessa procedura che coinvolge la Commissione europea, il Parlamento e il Consiglio, i quali stabiliscono di concerto il quadro degli impegni di spesa negli anni a cui si deve far fronte attraverso il versamento degli Stati membri. I paesi che in questi anni hanno invocato misure di austerity li conosciamo. Ma non sempre, nei diversi conversari, è chiara la distinzione tra lotta agli sprechi e tagli alle vere priorità. La recente richiesta di rinvio e di sospensione delle decisioni europee la dice lunga sul clima e su quello che sta succedendo, magari sottotraccia.
Per capire bene, però, le dinamiche che porteranno al nuovo bilancio, proviamo a riflettere se siano possibili strategie alternative di integrazione europea. Partiamo da un dato reale: quanto costano i Neet, cioè quei giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, né stanno seguendo alcun corso professionale? Si tratta di 14 milioni di giovani. Un costo umano, prima che finanziario, che coinvolge un gran numero di ragazzi e ragazze. Secondo le stime dell’Agenzia Europea Eurofond, costano, in cifre, 153 miliardi di euro all’anno di mancati riconoscimenti professionali. Una cifra enorme.
La strada alternativa, dunque, è già evidente. Non finanziare il passato, ma il futuro. Per questo Erasmus non va cancellato, ma potenziato. Si tratta, in poche parole, di ridimensionare la tendenza alla difesa corporativa dei vari egoismi nazionali.
La novità la potremmo chiamare “l’Erasmus per l’occupazione”. Si tratterebbe, perché è solo un’ipotesi, di sovvenzionare, anno dopo anno, con la copertura, per esempio, dei contributi sociali, un milione di contratti di un anno nel settore privato. Cioè veri posti di lavoro. Creando un volano positivo, sulla base del merito. Potremmo aiutare un milione di giovani europei, garantendo loro un lavoro in un Paese dell’Ue. E lavorando, di viaggiare, conoscere, di imparare le lingue, di apprendere stili di vita non vincolati ai vari nazionalismi, di privilegiare le dinamiche di una “società aperta”. Oltre i vincoli burocratici, oltre la prassi della “raccomandazione”, oltre i tanti corporativismi.
Se, ad esempio, si decidesse di impiegare la cifra di 8 miliardi di euro, potremmo garantire un riscontro stipendiale di 20.000 euro all’anno e contributi sociali del 40%, per un’incidenza sul totale del bilancio Ue del 6%, cioè sul totale dei circa 1.000 miliardi in sei anni. Si tratta dunque di investire pensando al futuro e non alle rendite di posizione. Cioè alle vecchie corporazioni sociali e nazionali, fortemente ancora presenti in tutti i paesi dell’Unione europea.
Il cambio di marcia è evidente: creare un valore aggiunto che avrà ricadute positive per tutti. Con la conseguenza di rendere visibile l’integrazione europea, di far emergere la sana competitività tra le imprese, e dare legittimità alle stesse istituzioni europee, oggi in forte crisi. L’Erasmus, cioè, come motore della concreta integrazione europea. Un Erasmus dello studio e insieme del lavoro. Vero antidoto al rischio di nuovi nazionalismi e protezionismi. Una esperienza sul campo, al di là dei facili proclami.
Talmente un’esperienza sul campo da avere cambiato la vita a tantissimi giovani. Il che mi porta, con la memoria, alla città di Torino, città di laurea di Erasmo (4 settembre 1506). L’unica sua laurea. Qui, con una borsa di studio ante-litteram, diventò dottore in teologia. Per questo il progetto porta il suo nome, per consentire, appunto, agli studenti universitari, come lui non-abbienti, di frequentare un semestre di studio in un’università straniera, grazie a una “borsa”.
Per questo motivo, sarebbe un vero autogol rinunciare a questo progetto. L’unico in grado di formare dal basso la cittadinanza europea. Le politiche di austerity non possono cioè colpire i fondi destinati alle politiche sociali e quelle per l’istruzione e per la ricerca.
Lo ricordo, in questi anni sono già stati tagliati, in modo “lineare”, i fondi sociali europei (Fse), cioè quei fondi che hanno aiutato milioni di persone a sviluppare le proprie competenze e a combattere, quindi, il rischio della precarietà e della disoccupazione. Quello stesso fondo generale a cui attinge l’Erasmus (European Region Action Scheme for the Mobility of University Students).