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L’attuale situazione mostra come i nodi, inesorabilmente, vengono sempre al pettine. Il ventennio da cui proveniamo, fondato sulla vacua speranza che l’aumento dei consumi – perlopiù sorretto con la crescita del debito pubblico, attraverso demagogiche operazioni di riduzione delle imposte e con un allargamento “populista” del controllo sull’evasione fiscale – potesse farci crescere e mantenere un alto livello di benessere sociale, ha chiaramente rivelato la propria inadeguatezza.
Certo, ci ha permesso di vivere “benino” fino a oggi, ma, nel contempo, ha contribuito a creare tutte le condizioni per un futuro drasticamente peggiore. Anziché investire su formazione, competenze, professionalità, innovazione, infrastrutture e servizi di pubblico interesse, in questi anni si è infatti dilapidato quell’ultimo “tesoretto” che proveniva dalla più pesante spremitura del debito che la nostra società potesse sopportare; con la conseguenza che, attualmente, siamo nella condizione di non poter disporre della necessaria elasticità nell’utilizzo di capitale pubblico e con un contesto gravemente inaridito dalla persistente inconsistenza delle nostre politiche di investimento.
Il drammatico impatto che la situazione descritta ha sulle opportunità di lavoro oggi disponibili, è ormai sotto gli occhi di tutti.
Ci troviamo, infatti, con un numero molto elevato di persone che, mentre sino a poco tempo fa sarebbero andate in pensione a età insostenibili per la finanza pubblica, dovranno ora individuare un modo per lavorare ancora qualche anno e questo – ahimè – molto spesso senza aver investito adeguatamente in passato sulla propria impiegabilità. E non è tutto: abbiamo anche ereditato un settore pubblico ancora appesantito da migliaia di persone che hanno, sì, un posto di lavoro, ma senza aver di fatto un vero lavoro da compiere, con una remunerazione costantemente in calo che attinge – spesso senza che si generi in cambio alcun reale valore aggiunto per il Paese – alle casse sempre più esangui dello Stato.
Abbiamo, infine, qualche milione di giovani non solo inoccupati o tenuti ai margini del mercato del lavoro, ma spesso anche lontani da percorsi di istruzione e formazione professionale in grado di accrescere la loro employability, almeno nel futuro. In una tale, sconcertante, situazione, è ancora più triste vedere come l’atteggiamento normale delle Parti sociali sia quello di litigare per distribuirsi i resti di ciò che è rimasto, quando è evidente che, andando avanti così, rimarrà sempre meno.
Da dove ripartire, dunque? Dal punto di vista sociologico, viene facile dire “dai giovani”. Essi, in effetti, hanno energie utilissime per aiutarci a recuperare il terreno perduto. Magari anche attraverso una “staffetta generazionale” che, come afferma il ministro Fornero, darebbe la possibilità a un lavoratore più anziano di mutare il suo contratto in part-time, permettendo in cambio alle aziende di assumere un apprendista. Ma anche questo non basterebbe: occorre andare più in profondità di quanto il tema della contrapposizione o, viceversa, del patto intergenerazionale tra più giovani e più vecchi non permetta.
Per ripartire non dobbiamo illuderci che si verificheranno magicamente plateali colpi di scena, né che si potranno individuare soluzioni a buon mercato o, peggio, che compariranno salvatori della patria “low cost”. Al contrario, forse proprio il fatto di dover attraversare insieme un pezzo di deserto potrà risvegliare in noi le vere motivazioni per cui decidere di metterci nuovamente in moto con serietà e forza. Forse ricomprenderemo che siamo chiamati – ognuno a suo modo – a partecipare attraverso il nostro lavoro alla costruzione di un bene per tutti.
Solo uomini che ricominceranno ad accorgersi di ciò a cui sono chiamati, giorno per giorno, consapevoli della responsabilità che portano, potranno infatti ricominciare – a qualunque età e in qualunque posizione si trovino – a ricostruire, ancora una volta, il nostro affaticato Paese. E in questa grande opera di rieducazione che ci attende, si riveleranno certamente decisive le comunità umane: famiglie, imprese, associazioni, Stato, che hanno in loro stesse un potenziale educativo formidabile. Ma l’appello ultimo, oggi, è più che mai rivolto al cuore e alla responsabilità di ogni persona. Per dirla con le parole di Winston Churchill: “Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare”.