Un emendamento inserito nella legge di stabilità, oggi in via d’approvazione, pone rimedio a una questione rivelatasi, per migliaia di contribuenti, drammatica. Sono 610mila, infatti, i lavoratori che, nel corso della propria carriera lavorativa, hanno afferito a più di un ente previdenziale. Attraverso l’istituto della ricongiunzione, si consente a chi ha ricoperto posizioni assicurative in gestioni previdenziali diverse, di riunirle in un’unica. Tutti i periodi contributivi, quindi, vengono compresi nella medesima gestione, mentre i periodi ricongiunti sono trattati come se, da sempre, fossero stati versati nel fondo in cui sono stati unificati. Il diritto alla pensione, quindi, viene calcolato secondo i criteri di tale fondo. Ma c’è un problema. Dal primo luglio 2010, tale pratica è divenuta onerosa. Fino a centinaia di migliaia di euro. «La norma era volta a impedire alle donne che passavano dall’Inpdap all’Inps di andare in pensione prima dei 65 anni. Non fu previsto che sarebbero rimasti vincolati a essa anche moltissimi altri lavoratori», spiega a ilSussidiario.net Luca Spataro, professore associato di Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Pisa. A oggi, già esisteva un’alternativa. La totalizzazione, che consente la riunificazione in maniera gratuita, ma con il calcolo contributivo. Con essa «il dipendente – afferma l’Inps – può cumulare i contributi versati presso due o più enti previdenziali per ottenere un’unica pensione. Gli enti interessati, ciascuno per la parte di propria competenza, determinano la misura dei trattamenti in rapporto ai rispettivi periodi di iscrizione maturati anche se coincidenti». Va da sé che si tratta di una procedura decisamente meno conveniente della ricongiunzione non onerosa. Ecco cosa prevede la nuova norma: «La ricongiunzione – afferma Spataro – non è più onerosa, ma il monte previdenziale viene calcolato in termini pro quota rispetto alle gestioni in cui sono stati versati i contributi. Significa che ogni contributo versato sarà calcolato in base ai criteri previsti dal fondo di appartenenza». Una via di mezzo definita totalizzazione retributiva. E che, in ogni caso, potrebbe determinare una riduzione della pensione, che potrebbe scendere a circa il 60% delll’ultimo stipendio. «Presumibilmente – aggiunge Spataro -, la differenza dipende dal fatto che, anche applicando il metodo retributivo, la quota calcolata rispetto a ciascun fondo sarà tanto inferiore quanto più il fondo cui si è afferito risale al passato. In sostanza, le retribuzioni di riferimento si riferiscono a stipendi incassati molti anni fa. Normalmente, quindi, decisamente inferiori agli ultimi redditi percepiti».
Una riduzione che, tutto sommato, è da considerarsi tutt’altro che iniqua. «Non dimentichiamo – continua Spataro -che, rispetto al sistema contributivo, queste persone riceveranno pur sempre dei regali intermini attuariali». Di per sé, infatti, «il regime contributivo, semplicemente, consente di ottenere una pensione equivalente ai contributi versati, in modo da non gravare sulle generazioni future e di non creare nuovi debiti. Il retributivo, invece, garantisce un assegno decisamente superiore ai contributi versati. Le norma in questione, tempera gli eccessi in termini di benefici, prevedendo un’età minima di 62 anni per ottenere l’assegno previdenziale».
(Paolo Nessi)