Negli ultimi mesi, grazie ai dati pubblicati dall’Istat, è finalmente tornato alla ribalta il tema della natalità. Questo a causa dell’ulteriore riduzione delle nascite avvenuta nel 2011, anno in cui questo calo è stato registrato sia in termini di numero di bambini nati, sia nel rapporto tra nuovi nati e popolazione femminile in età fertile. In altri termini, si è definitivamente interrotta e invertita la tendenza positiva registrata tra il 2000 e il 2008. Come giustamente ha fatto notare il Professor Campiglio, le cause sono facilmente identificabili nella crisi economica, che riduce drasticamente il reddito disponibile per le giovani coppie, ritardando la nascita di un figlio. Tale riduzione del reddito a sua volta non è compensata da adeguate politiche di integrazione e da appropriati servizi alle famiglie.
Questa inversione di tendenza ha definitivamente spiegato, a chi fino a ieri faceva finta di non capire, che il problema non è più semplicemente l’invecchiamento della popolazione (con le evidenti connessioni al sistema pensionistico che diventa ogni anno più difficile da sostenere), ma di sopravvivenza del nostro Paese. Infatti, se l’indice di natalità continua a scendere ulteriormente, l’unica certezza è che l’Italia sarà destinata in tempi più o meno lunghi a scomparire, quanto meno come popolazione (e come popolo).
Questo cambiamento di prospettiva apre diverse questioni. La prima è relativa alle politiche di rigore a cui da qualche anno siamo stati precettati. Per dare senso a tutti i sacrifici che ci stiamo imponendo è necessario quantomeno chiedersi: per chi facciamo tutto questo? La risposta non è più così banale come può apparire se la prospettiva del nostro Paese è il rischio di estinzione. Quanto meno, se la prospettiva è questa, occorre reimpostare i criteri di rigore in un’ottica di sostegno della natalità.
Allo stesso modo, questi dati impongono anche una revisione dello slogan che va per la maggiore in questo periodo, e cioè “la mancanza di un futuro per i nostri giovani”. Posto che sia impossibile dimostrare quale generazione abbia avuto a suo tempo un futuro garantito, stando a quanto dice l’Istat questo slogan acquisisce una sua validità.
Il futuro non garantito è dovuto al fatto che il nostro Paese, fermo restando questa tendenza, molto probabilmente non esisterà più. Per cui se si vuole dare un futuro ai nostri giovani, prima di tutto occorre dare un futuro al nostro Paese. In un contesto del genere non si può fare a meno di porsi la domanda centrale: come uscire da questa situazione. L’analisi del Professor Campiglio ha efficacemente sottolineato i due aspetti più importanti, e a mio avviso decisivi, per controbilanciare e in qualche modo alleviare le difficoltà che le famiglie devono affrontare quando vogliono dare il proprio contributo alla sopravvivenza del nostro Paese.
Per quanto riguarda le politiche di integrazione del reddito, senza cadere in inutili e dannose politiche assistenzialistiche, l’introduzione di quella agognata equità fiscale per le famiglie (tramite deduzioni per i figli o con l’introduzione del Fattore Famiglia) sarebbe certamente un sistema in grado di incrementare il reddito disponibile per le giovani coppie. E questo si potrebbe fare anche a saldi invariati per il bilancio dello Stato, quindi senza sacrifici aggiuntivi, ma semplicemente ridistribuendo i carichi impositivi. Altro aspetto fondamentale sottolineato dal Professor Campiglio è quello dei servizi, che in altri termini possiamo far rientrare nel tema della “Armonizzazione Famiglia-Lavoro” (come suggeriscono da tempo i Professori Stefano e Vera Zamagni).
Occorre cioè passare da una “mistica quantitativa del lavoro” a un “approccio del ciclo di vita” sul tema occupazionale, offrendo “la possibilità alle famiglie di organizzare la scelta tra tempi di lavoro, tempi famigliari e tempo libero, avendo come riferimento l’intero arco di vita degli individui”. In questo modo, si può cercare di invertire la tendenza di un continuo procrastinare la nascita del primo figlio, a causa del moderno conflitto tra lavoro e famiglia.
Parte del mondo imprenditoriale in qualche modo si sta muovendo in questa direzione, come dimostra lo sviluppo che sta avendo il tema della Corporate Family Responsibility, frontiera avanzata della Responsabilità Sociale delle Imprese. Qui rientrano diverse questioni direttamente collegate al tema della natalità. Questa connessione diretta è testimoniata dai benefici che ottengono le imprese quando adottano programmi di flessibilità degli orari di lavoro o più in generale di welfare aziendale orientato alla famiglia.
Tra i risultati si può anche ottenere un notevole incremento dell’indice di natalità tra le proprie dipendenti, come testimonia il caso della Cooperativa Sanithad di Mantova, dove grazie a programmi di flessibilità del lavoro, oggi nascono 4 figli l’anno per 100 donne in età fertile, mentre la media italiana è 1,30. Non solo, i benefici per le imprese sono anche esprimibili come riduzione dei tassi di assenteismo, incremento della lealtà nei confronti della impresa, miglioramento del tasso di innovatività.
Dal punto di vista istituzionale, occorre su questo fronte un cambiamento. Innanzitutto è necessario adottare un approccio sistemico, superando gli interventi spot e isolati, come ad esempio la Legge 53/2000 finanziata a singhiozzo, senza alcuna certezza per le imprese e i lavoratori. Occorre che tutto il tema della flessibilità intertemporale del lavoro venga incentivato in un’ottica di sostegno alla famiglia (family mainstreaming) e non solo in un’ottica di genere.
E’ altresì necessario riconoscere e sostenere e favorire la diffusione di quelle iniziative di welfare aziendale orientato alle famiglie, premiando e favorendo le buone prassi attraverso sistemi di defiscalizzazione a vantaggio dei lavoratori. Tutto questo rappresenterebbe un aiuto in grado di rispondere alle esigenze delle giovani coppie e di offrire loro quei necessari “sussidi” per liberare nuove energie e per non farli sentire soli nella scelta più importante per se stessi e per il loro Paese: generare il proprio e altrui domani.