Le norme hanno certamente una storia, di cui tutti abbiamo cognizione. Se chi le scrive ne determina la nascita, sono gli operatori giuridici a farle crescere e vederne gli sviluppi. Parlando di diritto del lavoro è giusto considerare gli operatori che contano, cioè quelle Parti sociali che sono rappresentative delle istanze di chi lavora ogni giorno; ma come comportarsi nei periodi in cui le divisioni sindacali sono tali da rendere impossibile la vera comprensione di una norma per il lavoratore comune?



In materia di articolo 8, ad esempio, tutti ne parlano e pochi ne conoscono le intenzioni, la sua “ratio” come direbbero gli addetti ai lavori. Da questa e dal suo inquadramento nella nostra regolazione del lavoro è bene cominciare per capire una norma tanto chiacchierata e oggi oggetto di una possibile abrogazione referendaria.



Oggi il diritto del lavoro è ancora caratterizzato da una prevalente volontà di tutela del contraente debole e per questo è troppo rigido e formalistico. Nelle mutate condizioni sociali, e soprattutto competitive, appare quindi ancor più utile affidare alle relazioni industriali la duttile convergenza di interessi tra imprese e lavoratori. Buon senso vuole che la soluzione si trovi dove la problematica sorge e da chi è sentita; suona logico. Ma siamo tutti d’accordo?

Evidentemente no, a partire proprio da quelle Parti sociali cui dovrebbe spettare una sorta di patria potestas sulla regolazione dei rapporti di lavoro. Se anche passi come il recente accordo sulla produttività, che per molti non aggiunge nulla allo status quo, se anche questi piccoli passi – appunto – non riescono a esser condivisi da tutti, i sindacati si rendono responsabili di limitare i diritti dei lavoratori, piuttosto che di ampliarli.



Se è vero, come siamo sicuri che sia, che le protagoniste delle relazioni industriali sono le Parti sociali, allora vuol dire che queste sono depositarie per loro natura di un potere regolatorio, che opera pro labour a seconda di come viene gestito. L’articolo 8 traduce in norma questo dato di realtà e in più permette che questo potere si esplichi in modo coraggioso, stimolante e, soprattutto, effettivamente utile.

A poco più di un anno dalla sua entrata in vigore, si è costituito un comitato referendario che ne promuove l’abrogazione e parte di questo comitato sono la Fiom e altre componenti della Cgil. Un sindacato che si autolimita e che ha paura di regolare il lavoro in modo autonomo può essere un attore valido per relazioni industriali moderne?

La fiducia nei confronti dei lavoratori, degli imprenditori e dei manager si guadagna se l’impresa porta a casa risultati e – coerentemente con l’intrinseca dimensione comunitaria dell’impresa – questi risultati derivano anche da relazioni industriali di tipo cooperativo. Chi teme l’articolo 8 teme i compromessi che inevitabilmente riguardano le comunità e la loro democrazia interna, perché sottrarre da questa democrazia proprio il mondo imprenditoriale? Del resto anche la Cgil (e precisamente la Filctem, dei chimici e tessili) non ha potuto far a meno di firmare alcuni accordi collettivi che si fondano sull’articolo 8, quale, ad esempio, l’accordo Golden Lady.

Infatti, ciò che può rifondare la nostra contrattazione collettiva è coordinarla con una progressiva cedevolezza della norma o di molte norme alle intese tra le parti raggiunte soprattutto nella concreta dimensione aziendale. Con una legge che apre ai contratti, la contrattazione collettiva che ne segue è certamente lo strumento più espressivo delle comuni intenzioni dei soggetti coinvolti nel rapporto giuridico individuale di lavoro, ovviamente fermi tutti i diritti inviolabili di matrice legislativa o addirittura costituzionale e riconosciuti dalle convenzioni internazionali.

Abrogare l’articolo 8 equivale ad abrogare la prossimità, cioè quanto di più vicino a noi, una dimensione che avvicina a noi la regolazione, che la lega ai bisogni concreti dei lavoratori. “Prossimo” è solo un aggettivo che racchiude al suo interno due qualificazioni, di territorio e di azienda, essendo queste due dimensioni diverse e che non si sommano nel quadro della piccola e media impresa italiana. La prossimità qualifica un contratto molto innovativo perché primario: trae la sua forza dalla legge e ciò significa che è più che capace di derogare; il suo quid pluris è dato dal fatto che quando c’è prevale, ovviamente in primis sul contratto nazionale, che è troppo ampio per individuare i sacrifici e i benefici ottimali a livello di azienda. Per questo il contratto collettivo nazionale di lavoro ha funzione di garanzia ed è cedevole rispetto al contratto aziendale.

I pericoli di scardinamento del diritto del lavoro, paventati dai promotori del referendum abrogativo, sono quindi evidentemente lontani perché: a) l’area della derogabilità permessa dall’articolo 8 è contenuta e si riferisce a tutele e non a diritti; b) sono le stesse esigenze delle parti a fissare i confini della loro disponibilità al cambiamento di certe norme, astrattamente uguali per tutti; c) l’atteggiamento oscurantista di certa parte sociale ha offuscato anche queste limpide intenzioni della giovane norma, che invece costituiscono un indubbio aggiornamento del sistema giuslavoristico, in cui tanta fiducia viene data proprio e anche a chi sembra non volerne.

 

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